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Libia

Come e perché Haftar si allarga in Libia

L'analisi di Federica Saini Fasanotti (Brookings Institution) e Arturo Varvelli (Ispi)

Khalifa Belqasim Haftar, militare di alto rango con profonde ambizioni politiche, rappresenta sotto molti aspetti la Libia e la sua natura controversa. Cresciuto sotto l’ala protettrice di Gheddafi come militare di professione, ne perse il favore durante la guerra contro il Ciad, a causa soprattutto della cospirazione ordita contro il regime insieme ad alcuni compagni nel periodo della prigionia.

Rilasciato grazie all’intervento americano, ha vissuto negli USA per decenni ed è tornato alla ribalta nel 2011, durante la rivoluzione libica che vide il rovesciamento del rais e di un sistema che aveva resistito per più di 40 anni.

Da allora, il nome di Haftar, connesso sempre di più alle sorti della Cirenaica e dell’House of Representatives (HoR), la camera dei rappresentanti libica auto-esiliatasi nel 2014, è stato in grado di resistere a guerre civili, contrasti tribali e pressioni internazionali. Haftar, più che strategie militari, ha ordito piani politici che hanno indebolito il Government of National Accord (GNA) di Tripoli, un governo nato già fragile, così come il suo leader, Fajez al-Serraj. Nonostante quest’ultimo goda del supporto ufficiale delle Nazioni Unite e degli inviati speciali di UNSMIL, a Tripoli regna il caos, mentre Haftar sta a guardare, dall’alto delle dune del Fezzan.

Giorno dopo giorno egli è stato in grado di superare le frizioni delle tribù della Cirenaica, di attirare l’interesse e l’appoggio anche materiale di potenze straniere di un certo calibro, come Egitto, Emirati Arabi, Russia. La sua voce è divenuta sempre più ascoltata, anche in Europa, come testimonia il caso dell’Italia che, sorda davanti alle sue iniziali richieste a rivoluzione finita, ha mutato chiaramente approccio, come è apparso evidente all’ultima conferenza per Libia, tenutasi a Palermo lo scorso novembre, dove il militare libico ha potuto fare il mattatore.

Haftar non ha guadagnato solo spazio a livello politico, ma anche a livello territoriale. Molti lo danno per malato, troppo stanco e troppo anziano per un potere che, si suppone, finirà nelle mani dei figli. Eppure Haftar è riuscito a compiere ciò che nessuno negli ultimi 8 anni in Tripolitania e nel Fezzan è riuscito a fare: unificare – seppur militarmente – un vasto ed eterogeneo territorio, con la scusa di una battaglia contro ogni tipo di estremismo islamico, accaparrandosi l’appoggio più o meno velato di una consistente fetta della comunità internazionale. Dopo un’estate molto difficile, soprattutto tra i vicoli di Tripoli, alcuni fatti positivi sembrano aver mosso le acque e portato un filo di speranza.

Una nuova roadmap sembra delinearsi e condurre a elezioni nella prossima primavera, anche se l’incertezza su questa scadenza continuerà a permanere nei prossimi mesi. Chi aveva premuto lo scorso 29 maggio a Parigi (principalmente il Presidente francese Macron) per una data certa delle elezioni (previste il 10 dicembre scorso) aveva un chiaro obiettivo: ribaltare la questione della legittimità del governo delle Nazioni Unite favorendo una vittoria politica di Haftar.

Se dalle prossime elezioni uscisse una maggioranza, seppur relativa, vicina ad Haftar il gioco sarebbe fatto. Il generale potrebbe vantare un chiaro ruolo di leadership sorretto da una rinnovata legittimità internazionale. Ma in ogni caso, c’è da chiedersi se Haftar, soprattutto se le elezioni non si terranno, sarà disposto a deporre l’ascia di guerra contro l’ovest a favore di un sogno democratico sempre più flebile.

Le necessità di stabilizzazione del paese e l’allineamento politico di alcuni attori internazionali sembrano in ogni caso spingere distintamente verso la sua direzione. Non è affatto chiaro tuttavia se questo sarà un processo istituzionalizzato e progressivo all’interno di un paese che si ricostruisce e che preserva gli equilibri interni e internazionali o sarà invece il risultato di uno sviluppo più rapido e violento.

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