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Giorgetti

Ecco come volano le toghe tra i magistrati

Che cosa mostra il caso Palamara sui magistrati secondo il notista politico Francesco Damato

Eppure verrà il giorno – temo per lui, e anche a breve scadenza – che al guardasigilli grillino Alfonso Bonafede potrà accadere di rimpiangere l’occasione perduta di dimettersi o di essere dimesso dalle mozioni di sfiducia individuale presentate inutilmente al Senato contro di lui dalle opposizioni di centrodestra e dall’europeista radicale Emma Bonino.

Non si sa francamente fino a quando il ministro della Giustizia, già costretto peraltro a liberarsi proprio per questo del capo di Gabinetto scelto due anni fa al suo arrivo in via Arenula, potrà continuare a restarsene praticamente alla finestra a turarsi il naso -mi auguro- davanti alla diffusione delle chiacchierate telefoniche del magistrato Luca Palamara con tanti colleghi più o meno familistici o politici e giornalisti più o meno giudiziari, tutte intercettate col metodo invasivo del “Trojan”. Che -lo riconosco- potrebbe fare di chiunque di noi un mostro nei rapporti col prossimo. Ma, volente o nolente, Palamara ha mostrificato trojanamente per prima la sua categoria, peraltro da lui stesso rappresentata per un po’ di tempo al vertice dell’associazione dei magistrati. E poi anche come esponente del Consiglio Superiore.

“Sui giornali leggo dialoghi che mi fanno vergognare di chi veste la mia stessa toga”, ha detto in una intervista al Riformista Alfonso Sabella, cui è ispirato il personaggio televisivo del “cacciatore” di criminali: uno che si è anche affacciato in politica, come assessore alla legalità nella giunta capitolina di Ignazio Marino, fra il dicembre del 2014 e l’ottobre del 2015, uscendone immacolato come vi era entrato. E per nulla tentato, pare, di riprovarci.

A 57 anni compiuti e con successi alle spalle come la cattura di Brusca e Bagarella – “li ho arrestati tutti io”, ha detto ricordando il lavoro svolto dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio – Sabella è ancora un magistrato “di primo grado”, rassegnato ad andare in pensione così, quando ne maturerà il diritto, perché “non me ne frega niente”, ha detto spiegando di volere rimanere “un uomo libero”: anche dalle correnti della magistratura che hanno ancora il coraggio di chiamarsi così dopo essere diventateTravaglio tanto chiaramente e diffusamente conventicole di potere o “cosche”, com’è scappato oggi di scrivere persino a Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano. Le loro invasioni di campo cominciano nello stesso Ministero della Giustizia, dove un centinaio di magistrati governano ben più dei politici che si alternano al vertice e ne hanno sinora tollerato quello che può ben essere chiamato un conflitto permanente e oggettivo d’interessi, quanto meno.

Deve ben essere arrivata la situazione al livello di una fogna a cielo aperto – “tra il letame e il ventilatore”, ha titolato in rosso Il Foglio – se il povero Sabella, strabattendosene anche dell’elezione prescritta dall’articolo 104 della Costituzione, sempre invocato dai colleghi per lasciare praticamente le cose come stanno, è rimasto col pensionato Carlo Nordio dell’idea di formare il Consiglio Superiore della Magistratura col sorteggio. Che è l’unico sistema forse non controllabile dalle correnti che hanno dimezzato la giustizia, come grida un titolo di prima pagina di Repubblica prendendosela però solo con gli effetti procedurali da coronavirus.

Una mascherina servirà ben poco Il Fattoa Bonafede per schivare “la Palamarata”, come l’ha chiamata sempre Travaglio sul suo giornale. O Palamarite, sarebbe forse meglio dire.

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