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L’Europa, le radici cristiane e gli zelanti di Bruxelles

La battaglia per il riconoscimento delle radici “giudeo-cristiane” dell’Europa è stata persa decenni fa e non sembra davvero che ci siano le condizioni per riprovarci. II corsivo di Teo Dalavecuras

 

Troppo prevedibilmente, i leader della destra e di centrodestra, in particolare Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani, hanno intonato il ritornello delle “radici cristiane” dell’Europa, appena è circolato il documento della Commissione Europea (CE) in tema di correttezza linguistica dei documenti prodotti a Bruxelles. Non che queste radici non siano un dato di fatto della storia europea, e non orientino ancora la condotta di numerosi cittadini di questo nostro continente, ma c’erano almeno due buoni motivi per lasciar cuocere la Commissione Ue nel proprio brodo, senza rincorrere l’ultima fesseria elaborata dalle falangi burocratiche di Bruxelles.

Il primo è che la CE è una casta irresponsabile, politicamente e anche secondo i parametri del senso comune. Può non piacere (a me e, credo, anche a altri nostalgici dello Stato democratico legittimato dal voto popolare, non piace affatto), ma nessuno di coloro che possono governare i nostri destini sembra interessato a modificare questa situazione e, probabilmente, anche se volesse non potrebbe.

In secondo luogo, la battaglia per il riconoscimento delle radici “giudeo-cristiane” dell’Europa è stata persa decenni fa e non sembra davvero che ci siano le condizioni per riprovarci, oggi, quando anche l’orientamento dei vertici della principale confessione cristiana, quella romano-cattolica, inclina verso il politicamente corretto. Sicché le proteste sono velleitarie, che per un politico è o almeno dovrebbe essere considerato l’esito peggiore.

Vale tuttavia la pena di riflettere sul brano delle nuove “linee guida” della CE, a futura memoria.

Ecco le frasi che hanno dato la stura alla polemica, tratte dalla puntuale cronaca della Gazzetta di Parma (non vorrete pretendere che questi documenti si possano reperire nello sterminato sito web dell’Unione Europea!). “Ogni persona in UE ha il diritto di essere trattato in maniera eguale”, senza riferimenti di “genere, etnia, razza, religione, disabilità e orientamento sessuale”.

L’antica distinzione tra ‘Miss’ e ‘Mrs’ (signorina e signora) va sostituita dal generico ‘Ms’ (in realtà ‘Ms’ è in uso già da decenni in tutto il mondo e qui il burocrate, come spesso gli capita, sfonda una porta aperta).

Infine si arriva alla raccomandazione clou: mai dire “il Natale è stressante” perché il non cristiano si sentirebbe discriminato ma “le festività sono stressanti”. In generale dovrebbero essere bandite le formulazioni che danno per scontata la prevalenza della religione cristiana in Europa. E qui germoglia il dubbio: si potrà dire che “il Ramadan è stressante”? Confidiamo in una circolare interpretativa.

Ciò che lascia perplessi, tanto da sembrare una parodia di “1984”, se non un lapsus freudiano, è però l’incipit, quel “Ogni persona in UE ha il diritto di essere trattato in maniera eguale”.

Che cosa vuol dire “essere trattati in maniera eguale”? Significa essere trattati senza considerare le peculiarità di ciascuno, cui normalmente siamo anche affezionati?

Se è così, più che un diritto sembrerebbe un dovere, perché quella di appiattire gli individui per trasformarli in monadi equiparate è la pretesa che ogni burocrazia impone con successo a chi le è sottoposto.

Che questo sia anche il mantra della CE lo si poteva immaginare, ma che questa arrivi a vantarsene fino al punto di tradurre una imposizione in un “diritto” denota quella che sta diventando la malattia – chi vivrà vedrà se senile o infantile – di Bruxelles: l’eccesso di zelo che, notoriamente, è l’unico vizio che il burocrate non deve permettersi.

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