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Istituti Di Ricerca Cinesi

Perché Usa e Ue picchiano solo ora contro l’Italia sulla Cina?

Che la Cina sia un paese comunista lo sanno anche i sassi. Ma soltanto ora, dopo dieci anni di affari con le società statali e le banche di Stato di Pechino, a Bruxelles scoprono che la Cina «è un avversario sistemico, che ha modelli di governance diversi» da quelli europei. L'approfondimento di Tino Oldani, firma di ItaliaOggi

Se avete cinque minuti, andate sul sito bloomberg.com e cercate il file «China business in Europe». Troverete un rapporto a più mani, redatto nell’aprile 2018, che fa il punto sulle acquisizioni della Cina in Europa, corredato da infografiche eloquenti. La prima informa che i paesi con cui la Cina ha fatto il maggior numero di acquisizioni negli ultimi dieci anni sono la Gran Bretagna (227 accordi) e la Germania (225), seguiti a distanza da Francia (89), Italia (85) e Olanda (82). Non meno eloquente la seconda infografica, che è interattiva e consente di vedere le fotografie satellitari di ciò che la Cina ha acquistato nei vari paesi.

Solo per la città di Londra, vi sono 15 icone: cliccando sulle prime 14 si possono vedere le moderne torri o i palazzi per uffici del centro di Londra comprati a suon di miliardi da aziende cinesi negli ultimi dieci anni; l’ultima icona si riferisce all’aeroporto di Heathrow, di cui i cinesi hanno preso una quota di minoranza. La stessa cosa si può fare per la Germania: qui l’attenzione dei cinesi per le grandi infrastrutture europee è confermata dal fatto che hanno comprato la maggioranza azionaria dell’aeroporto Hahn di Francoforte, città dove ha sede la Banca centrale europea. Le infografiche successive spiegano in quali settori si sono concentrati gli investimenti cinesi: 225 miliardi di dollari dal 2008 al 2018, per stipulare 678 accordi societari in 30 paesi europei, 360 dei quali si sono conclusi con il passaggio del controllo azionario in mani cinesi.

I LEADER EUROPEI IN CINA

Inutile ricordare che tutti questi accordi sono stati autorizzati, o addirittura patrocinati, dai governi dei vari paesi Ue. Tra i capi di governo che si sono recati a Pechino per agevolarli, la cancelliera Angela Merkel è stata tra i più attivi, imitata sia dalla collega britannica Theresa May che dal francese Emmanuel Macron, a cui si sono aggiunti negli ultimi mesi le visite a Pechino del ministro del Tesoro italiano, Giovanni Tria, e del vicepremier Luigi Di Maio.

CHE COSA HA FATTO GENTILONI

Prima di loro, il 15 maggio 2017, anche l’ex premier Paolo Gentiloni si era recato nella capitale cinese per incontrare il presidente Xi Jinping, e subito dopo il colloquio sulle prospettive economiche offerte dalla «Belt and Road», la «Nuova via della seta» cinese, dichiarò: «Porti, industrie e cultura italiani: un’occasione per la Cina». Ebbene, di fronte allo scenario disegnato da Bloomberg e all’attivismo pro-Cina di quasi tutti i premier europei, l’allarme lanciato ora dalla Commissione Ue sulla Cina, «che minaccia i valori europei», soprattutto se l’Italia aprisse i porti alla Cina, suona davvero strano, a dir poco ipocrita.

LA SORPRESA SORPRENDENTE DI BRUXELLES

Che la Cina sia un paese comunista lo sanno anche i sassi. Ma soltanto ora, dopo dieci anni di affari con le società statali e le banche di Stato di Pechino, a Bruxelles scoprono che la Cina «è un avversario sistemico, che ha modelli di governance diversi» da quelli europei. Modelli che obbligano l’Ue a «difendere i propri principi e valori». Da qui, alla vigilia della visita di Xi Jinping a Roma, l’invito tacito all’Italia a non fare da sponda a un’ulteriore espansione cinese in Europa, negoziando la messa a disposizione di alcuni porti (come Genova e Trieste) che faciliterebbero la penetrazione delle merci cinesi in Europa.

LA BALDANZA DELLA CINA

Un rischio vero, inevitabile in un contesto di mercato libero e globalizzato, le cui regole sono state decise dai paesi occidentali del Wto, e non dalla Cina. Di certo, un rischio di gran lunga inferiore a quello rappresentato dalla partecipazione azionaria cinese ai grandi porti di Rotterdam in Olanda e di Zeebrugge in Belgio: operazioni sulle quali Bruxelles non ha mai aperto bocca in passato.

IL TOSTO MONITO DI TRUMP

Non è chiaro quale sarà la risposta del governo italiano, confuso e contraddittorio come al solito, soprattutto se si considera che all’allarme di Bruxelles si è aggiunto il pesante monito di Donald Trump, contrario a coinvolgere la cinese Huawei nello sviluppo del G5, per ragioni di sicurezza. Da un lato, la linea del M5s di Luigi Di Maio e del premier Giuseppe Conte è di firmare gli accordi già previsti con la Cina, quando il 23 marzo Xi Jinping sarà in Italia; dall’altro, la Lega di Matteo Salvini ha tirato il freno, con un esplicito riferimento all’invito americano perché l’Italia non sia il primo paese del G7 ad aderire al progetto Belt and Road di Pechino. Una mossa a dir poco contraddittoria, visto che il principale sponsor della visita cinese in Italia è stato proprio un leghista, Miche Geraci, sottosegretario allo Sviluppo economico, banchiere e docente in Cina per dieci anni (parla il mandarino).

I CAPITALI CINESI IN ITALIA

Finora i capitali cinesi hanno fatto comodo a molte imprese italiane. Le statistiche dicono che sono 168 i gruppi cinesi che hanno investito in Italia, per un totale di 12,8 miliardi di euro. Le partecipazioni sopra il 10% riguardano 398 imprese, con 21.500 dipendenti e 12,7 miliardi di fatturato. Nel 90% dei casi in cui una società è partecipata dai cinesi, il controllo è passato a questi ultimi. L’elenco delle aziende partecipate comprende nomi noti: Fca, Telecom, Enel, Generali, Terna, Ansaldo Energia, Cdp Reti, Berio, Krizia, Esaote. L’investimento maggiore è stato sulla Pirelli, di cui il gigante China National Chemical ha acquisito la quota di controllo per 7,3 miliardi di euro. Operazioni avvenute quasi tutte nel biennio 2014-2015, quando la crisi economica era al picco e molte imprese italiane in difficoltà.

LO SCENARIO

Il commento, allora, era: «La Cina si sta comprando l’Italia, e noi glielo lasciamo fare perché siamo nei guai». E Alberto Rossi, della Fondazione Italia-Cina, riconobbe che i cinesi, a differenza di altri, «non fanno acquisti per appropriarsi dei marchi e poi chiudere i battenti. Più di frequente, l’investimento cinese riesce a scongiurare la chiusura dell’azienda». Ma ora, dopo i veti di Trump e Bruxelles, i valori da salvare sembrano cambiati. Se in meglio o in peggio, resta da vedere.

 

Articolo pubblicato su ItaliaOggi

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