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Angoscia

L’angoscia ai tempi del Coronavirus. Il Bloc Notes di Magno

Fra le emozioni costitutive della condizione umana, l'angoscia è tra le più predisposte a vertiginose metamorfosi. Lo stiamo sperimentando in questi giorni. Il Bloc Notes di Michele Magno

Fra le emozioni costitutive della condizione umana, l’angoscia è tra le più predisposte a vertiginose metamorfosi. Lo stiamo sperimentando in questi giorni, in cui l’isolamento domiciliare della popolazione modifica radicalmente non solo stili di vita e di consumo, ma intacca le basi stesse di quella “socievolezza” che tiene insieme una comunità di cittadini. In verità, di solito ansia e angoscia vengono usate come sinonimi, anche se la seconda ha indubbiamente un’espressività molto più alta. Pure, nelle lingue di origine latina vi è una distinzione terminologica che, nella lingua tedesca, si dissolve: la parola “angst” designa infatti entrambi gli stati d’animo; mentre in inglese ad “anxiety” (ansia) si affianca  “anguish” (angoscia).

L’angoscia e l’ansia, dunque, non si distinguono fra loro se non per la diversa intensità semantica. Entrambe designano una sottile inquietudine o, meglio, un profondo tormento interiore, legato a un’idea di sventura imminente e a un senso di estraneità alienante. Sono esperienze emotive improvvise e laceranti, che possono manifestarsi attraverso un malessere fisico e psichico in grado di annientare, in talune circostanze, la volontà dell’individuo. La paura, al contrario, denota uno stato d’animo che nasce da una situazione di rischio reale, in contesti ambientali in cui le cause del pericolo sono chiaramente determinate e percepite.

Da questo punto di vista, va detto che nel tempo presente il sentimento dominante non è la paura, ma l’angoscia. Se attraversiamo la strada, guardiamo a destra e sinistra perché temiamo di essere investiti. La paura è pertanto un ottimo meccanismo di difesa: come insegnano le vecchie guide alpine, la paura — suggerendo prudenza e circospezione — spesso ci salva dalle valanghe. Nel caso del coronavirus, invece, ci troviamo di fronte a un nemico minaccioso quanto invisibile, che può colpirci quando meno ce lo aspettiamo. Ne deriva uno stato di fibrillazione permanente che, ove questo nemico non venga sconfitto rapidamente, può generare collera. E la collera, come è noto, il più delle volte è una reazione ad aspettative deluse carica di energia scomposta e di aggressività che annebbiano l’intelletto.

Al tema dell’angoscia hanno dedicato pagine cruciali Sigmund Freud e Martin Heiddeger. In Freud è la madre di ogni sintomo nevrotico, che si attiva in virtù di un conflitto più o meno cosciente tra l’Io e la società (“Inibizione, sintomo e angoscia”, 1925). Dal canto suo, in “Essere e tempo” (1927) Heiddeger sostiene che l’angoscia è anche confronto perenne con l’incombenza della morte, la cui presenza ciascuno di noi tende a rimuovere costantemente. Essa però riemerge inesorabile, tagliente e irrevocabile, proprio quando siamo immersi nel tumulto e nell’abisso dell’angoscia. Quando essa si agita in noi, il mondo si trasforma facendosi ostile e ambiguo, divenendo talora irraggiungibile, enigmatico e inconoscibile.

Poco più di ottant’anni prima, Soren Kierkegaard aveva sviluppato riflessioni non meno memorabili. In suo celebre testo, “Il concetto dell’angoscia” (1844), il pensatore danese scrive: “E nessun grande inquisitore tien pronte torture così terribili come l’angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è più debole, né sa preparare così bene i lacci per accalappiarla come sa l’angoscia; nessun giudice, per sottile che sia, sa esaminare così a fondo l’angoscia che non se lo lascia mai sfuggire, né nel divertimento, né nel chiasso, né sotto il lavoro, né di giorno, né di notte” (“Opere”, Sansoni, 1972).

Eppure come spesso accade, forse è stato un poeta, Charles Baudelaire, colui che è riuscito a descrivere, con più efficacia di un trattato di psichiatria e filosofia — la realtà psicologica e umana dell’angoscia. “Spleen” è una locuzione inglese che designava la milza; successivamente assunse il significato di “malinconia” o “tedio esistenziale”, sulla base delle antiche teorie mediche che situavano proprio nella bile secreta dalla milza l’origine della sindrome depressiva. Non fortuitamente Baudelaire ha intitolato proprio “Spleen” uno dei gioielli della raccolta lirica “Les Fleurs du mal” (1857), in cui simbolismo e crudo realismo si mescolano in versi stilisticamente sublimi, che esprimono con straordinaria modernità l’angoscia paralizzante e il panico per l’inevitabile tragicità della nostra esistenza:

“Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni, e versa, abbracciando l’intero giro dell’orizzonte, un giorno nero più triste della notte;

quando la terra è trasformata in umida prigione dove la Speranza, come un pipistrello, va sbattendo contro i muri la sua timida ala e picchiando la testa sui soffitti marci;

quando la pioggia, distendendo le sue immense strisce, imita le sbarre d’un grande carcere, e un popolo muto d’infami ragni tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli, improvvisamente delle campane sbattono con furia e lanciano verso il cielo un urlo orrendo, simili a spiriti vaganti e senza patria, che si mettono a gemere ostinatamente.

E lunghi trasporti funebri, senza tamburi né bande, sfilano lentamente nella mia anima; vinta, la Speranza piange; e l’atroce Angoscia, dispotica, pianta sul mio cranio chinato il suo nero vessillo”.

(“I fiori del male”, Feltrinelli, 2014)

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