skip to Main Content

Caso Barrack

Altro che Corea del Nord, ecco le vere partite degli Usa di Trump

L'analisi dell'editorialista Guido Salerno Aletta

Bisogna mettere insieme le tante tessere del mosaico che compone gli interessi americani: sono globali ed imperiali, ma ormai giunti al limite della resistenza interna ed esterna.

Le partite politiche e militari sono molteplici.

L’incontro ad Hanoi tra Donald Trump e Kim Jong-un verifica la possibilità di chiudere le trattative che sanciscono il disarmo nucleare della Corea del nord: si dovrebbe chiudere una situazione di conflitto latente che era stata tenuta volutamente in stallo per oltre sessanta anni.

La sede dell’incontro, la capitale del Vietnam, è evocativa di un’altra guerra dolorosissima per gli Usa, conclusa con una ritirata dopo il fallimento di anni di bombardamenti aerei, mentre i Viet-cong impantanavano i militari americani nelle risaie. Erano due conflitti gemelli, quelli nelle due penisole cinesi, Corea e Vietnam, residuo del vano tentativo di contenere la rivoluzione comunista guidata da Mao, che aveva sconfitto l’alleato americano, il generale Ciang Kai shek.

La minaccia di una aggressione nucleare a danno della Corea del Sud e del Giappone consentiva agli Usa di tenere aperto il suo ombrello militare in quello scacchiere a nord della Cina. Questa, a sua volta, strumentalizzava il conflitto per tenere sotto scacco Seoul e Tokyo. E’ stata una sorta di bis della Guerra fredda, giocata con la minaccia di una mutua distruzione, che ormai stava pericolosamente lambendo anche la sicurezza americana, a mano a mano che la Corea del nord sviluppava missili armati di ordigni nucleari capaci di raggiungere le coste americane bagnate dall’Oceano Pacifico.

Il realismo ha prevalso, ormai si stava giocando col fuoco: per questo Donald Trump ha giocato alla sua maniera, minacciando pesantemente un attacco militare che avrebbe distrutto la Corea del Nord. Il conflitto vero è tra Usa e Cina, è strategico: economico, finanziario e politico, va giocato sul piano globale. Il conflitto con la Corea del Nord, strumentale, è un residuo del passato: completamente inutile, anche per il Presidente Kim Jong-un.

Gli Usa si devono concentrare sui loro problemi, veri e gravi. Il disavanzo commerciale verso il resto del mondo continua a crescere: nel 2018, ha raggiunto la barriera psicologica dei 600 miliardi di dollari. La bilancia dei pagamenti correnti è strutturalmente in passivo, per oltre il 2,5% del Pil.

Come se non bastasse, anche il bilancio federale americano è in deficit strutturale, attorno al 4% del Pil: sono oltre 800 miliardi di dollari di nuovi titoli da piazzare, con un debito che è arrivato ad oltre 22 mila miliardi di dollari. Senza correzioni, è stato stimato che crescerà senza soste, arrivando al 152% del Pil nel 2050, con gli interessi che arriveranno ad essere la terza voce di spesa.

Inutile fare il paragone del Giappone, che già da qualche anno pratica una politica monetaria con interessi a tasso zero per i titoli pubblici: Tokyo può sostenere un debito pubblico pari ad oltre il 240% del Pil, e non pagare interessi, perché riversa sui titoli pubblici una parte dell’attivo commerciale che accumula annualmente. Meglio finanziare in disavanzo la spesa pubblica e gli investimenti infrastrutturali che migliorano la competitività del sistema produttivo piuttosto che investire in azioni o in immobili e far lievitare bolle finanziarie.

Un dollaro debole potrebbe limitare le importazioni americane ed incentivare l’export, ma l’America è deindustrializzata: le sue multinazionali hanno delocalizzato la gran parte della produzione all’estero, sin dagli anni Ottanta.

A Washington serve invece un dollaro forte, per attirare i capitali che finanziano i suoi squilibri sull’estero: a fine 2018 la posizione finanziaria netta è stata passiva per oltre 8.000 miliardi di dollari, peggiorando al ritmo di circa mille miliardi l’anno. Ma la situazione internazionale è molto difficile: Cina non compra più titoli del Tesoro americano, preferendo investire in Africa e lungo la Via della Seta; il Giappone non aumenta la sua quota di debito americano; la Russia ha venduto tutto quel poco che aveva per timore di un congelamento nell’ambito delle sanzioni per l’annessione dell’Ucraina; i Paesi del Golfo produttori di petrolio non hanno più risorse da reinvestire. È un pasticcio.

La guerra dei dazi, scatenata dagli Usa nei confronti della Cina, serve non solo per ridurre il mostruoso disavanzo commerciale americano ma soprattutto per limitare le cessioni di tecnologia che hanno enormemente arricchito Pechino, attraverso accordi di produzione in territorio cinese che prevedono come condizione inderogabile la condivisione dei brevetti dell’operatore straniero. E’ qui che si gioca il dominio sulle tecnologie del futuro, basate sulla Intelligenza Artificiale.

Il ritiro delle truppe americane dall’Afganistan e dalla Siria fa parte del medesimo realismo: troppi fronti aperti, troppi conflitti hanno dissanguato inutilmente gli Usa. È bene che gli alleati, europei ed arabi, facciano la loro parte.

La Russia va tenuta lontana, per un unico motivo: abbattere il muro di ostilità che la circonda la inserirebbe a pieno titolo nel contesto europeo e mediterraneo. Si legittimerebbe la presenza di un temibile concorrente.

La vicenda in corso nel Venezuela fa pari e patta con quella che abbiamo visto in Ucraina, con l’annessione della Crimea: Usa e Russia hanno entrambi un “cortile di casa” in cui non vogliono interferenze. La realtà è semplice e brutale.

Donald Trump gioca le ultime carte del Secolo Americano.

America in bilico. Tra onnipotenza e realismo.

 

Articolo pubblicato su teleborsa.it

Back To Top