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Coronavirus, 388 contagiati passeggiavano in Lombardia il 20 febbraio prima del paziente uno di Codogno. Report

Che cosa emerge dallo studio (al momento sottoposto al vaglio scientifico) su come e quanto era diffuso il Coronavirus ben prima del 20 febbraio

Inutile cercare il Paziente Zero collegato al Paziente Uno, lo sportivo 38 enne individuato con il Coronavirus a Codogno il 20 febbraio, perché l’epidemia già circolava in Lombardia dai primi di gennaio.

A quella data, si andavano formando tre cluster: Cremona, Bergamo e appunto Codogno. La malattia si è diffusa prima lentamente, con pochi casi, dalla prima quindicina di gennaio, in due località, per arrivare a fine gennaio in sei località. Il 5 febbraio i comuni lombardi interessati erano una ventina. Quando si è arrivati al 20 febbraio, il paziente uno era accompagnato da almeno altre 388 persone accertate poi come positive in Lombardia.

 

Mentre il fenomeno correva, l’attenzione pubblica italiana era tutta rivolta ai due turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani a Roma, celebrava l’isolamento del virus e le eccellenze statali, mentre diversi aerei rimpatriavano persone dalla Cina con tutta l’attenzione mediatica. La forza di controllo statale, che pure nel 2008 ha adottato un piano pandemico nazionale, era distratta.

Per ottenere questo risultato, un gruppo di studio ha esaminato i dati epidemiologici di 5830 casi. Si è andati a ritroso da quel 20 febbraio, sono state fatte delle interviste ai contatti e ai parenti, risalendo passo passo a tutti i casi sospetti, di cui sono poi stati raccolti i tamponi. Anche confrontandosi con le analisi dell’Oms e con i dati dell’esperienza epidemica cinese, sono stati valutati e calcolati i tempi di trasmissione dei contagi, tenendo conto dell’incubazione, della sintomaticità e di altri fattori.

La parte interessante dell’analisi è quindi il periodo 1, in arancione nel grafico, prima della scoperta del primo paziente di Codogno. Sono contagi singoli, che circolano ignari, alcuni si ammalano, in qualche caso passano in ospedale. Per i suoi specifici meccanismi di trasmissione, il contagio impiega del tempo a diffondersi, sono ancora solo scintille, i numeri importanti verranno dopo.

covid-19Dalla scoperta del paziente 1, il 20 febbraio, è iniziata una campagna di tamponi per cercare i contatti, sintomatici e asintomatici, che è durata sei giorni, fino al 25 febbraio. Si è osservato che con quella crescita dei contagi qualcosa non quadrava, che il virus circolava anche per altre ragioni: fu detto anche dai giornali dell’epoca. Anche per questo si è risaliti indietro, per capire cosa fosse successo.

Mentre si studiava e si cercava il paziente zero, il 24 febbraio è stata istituita la zona rossa di Codogno e dal 26 febbraio i tamponi sono stati fatti solo ai pazienti sintomatici, e sono quindi diventati meno interessanti per l’analisi epidemiologica. Era ormai diventata un’emergenza sanitaria.

I media erano tutti concentrati su Codogno, dove si sperava di poter arrestare il fenomeno, mentre erano in circolazione almeno 388 persone positive, di cui 355 localizzate al 19 febbraio per lo più in tre aree: Bergamo con 91 casi, Cremona con 59 casi, Lodi (quindi vicino a Codogno) con 132 casi. Seguono Brescia (38 casi), Milano (30 casi), Pavia (21 casi).

Lo studio è al momento sottoposto al vaglio scientifico dei colleghi in un sito di pre-pubblicazione. E’ firmato da 24 autori, di cui due senior, Fausto Baldanti, responsabile del laboratorio di virologia molecolare al Policlinico di Pavia, e Stefano Merler, della fondazione Bruno Kessler di Trento. I tre redattori principali sono Danilo Cereda, direttore della struttura malattie infettive della Regione Lombardia, Marcello Tirani, del dipartimento di igiene e medicina preventiva dell’Agenzia per la tutela della salute di Pavia, e Francesca Rovida, della Fondazione IRCCS al Policlinico San Matteo di Pavia.

Lo studio è stato notato da Sylvestre Huet, della redazione scientifica di Le Monde, sul suo blog, il 26 marzo 2020. Farà discutere: in quella prima fase è scappato il controllo del rischio epidemiologico e vi si osserva un comportamento politico, organizzativo, di relazione tra autorità centrale e locali, di comunicazione largamente inadatto e insufficiente rispetto alla crisi che ne è seguita.

Servirà per migliorare e per costruire nuovi strumenti preventivi, ma è già utile sin d’ora – come si legge nelle conclusioni – alle “altre regioni italiane a ai Paesi che stanno affrontando un rapido aumento di casi di Covid-19”.

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