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Germania

Vi spiego i bluff della Germania sull’energia (e Bruxelles lascia correre)

L’approfondimento dell’economista Alberto Clò, direttore di Rivistaenergia.it, sulle mosse della Germania nel settore energia

A distanza di un anno dacché il governo tedesco iniziò a definire l’exit strategy dal carbone (vedi post 5 febbraio 2019) il governo Merkel IV ha raggiunto un accordo con gli Stati federali che dovrà essere ratificato con apposita legge prevista per metà anno.

Tre i punti qualificanti.

Primo: chiusura entro il 2038 – tra diciotto anni! – (ma non è escluso al 2035) delle 84 centrali a carbone che alimentano oltre 1/3 della generazione elettrica tedesca.

Secondo: chiusura in parallelo delle 9 miniere di lignite a cielo aperto (il peggio del peggio in termini ambientali) che alimentano 1/4 della generazione elettrica, concentrate in 4 regioni (Saxony-Anhalt, Saxony, North Rhine-Westphalia, Brandenburg).

Terzo: indennizzo di 40 miliardi di euro per le aree minerarie e di 4,3 miliardi per quelle ove sono localizzate le centrali elettriche al fine di attutire l’impatto socio-economico (compreso i futuri mancati guadagni!) delle chiusure e riconvertirle ad altra attività. Cifre oltre modo considerevoli considerando che l’occupazione coinvolta supera di poco le 16.000 unità.

Si dirà “meglio tardi che mai” ma l’uscita dal carbone fissata tra 18 anni non è un bel biglietto da visita per un paese che si professa verde ed efficiente

La decisione tedesca merita alcuni commenti.

Il primo è la grande lentezza – anche se meglio tardi che mai – con cui la Germania sta procedendo sulla via della decarbonizzazione pur vantandosi di essere la più green del reame.

Angela Merkel, vale ricordare, presiedette come ministro dell’ambiente tedesco la prima Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite (COP1) di Berlino nel 1995, ben venticinque anni fa, in cui la Germania rilanciò le conclusioni della Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 impegnandosi solennemente a ridurre le sue emissioni del 30% tra 1987 e 2005 (contando sulla chiusura delle inquinanti fabbriche della Germania dell’Est).

Così non è stato. Da allora la Germania ha fatto poco rispetto alla maggior parte dei partner europei, pur avendo dettato l’agenda e i contenuti della politica energetico-ambientale europea.

Ha sì aumentato di molto la penetrazione delle rinnovabili, costruendoci sopra un’industria che conta centinaia di migliaia di occupati, ma ha ridotto di pochi punti percentuali il peso del carbone nel suo mix energetico, che si aggira ancora sul 20%, e uscendo in tempi molto più rapidi dal nucleare – fonte low-carbon, vale la pena ricordare – con un impatto netto negativo sull’ambiente.

Il National Bureau of Economic Research tedesco ha stimato in 12 miliardi di dollari il costo annuale dell’uscita dal nucleare riconducibili in gran parte all’impatto del maggior inquinamento che inevitabilmente ne deriverà dovendo sostituire col carbone l’elettricità generata tra il 2022 e il 2035-2038, non potendo evidentemente sostituirla con le rinnovabili.

Morale: la Germania ha ridotto le sue emissioni globali dall’inizio del Millennio meno della media europea così da presentare un’impronta carbonica in termini di emissioni di CO₂ pro-capite superiore della metà della media europea. Nonostante ciò nessun monito è arrivato da Bruxelles – si pensi a quelli in tema di finanza pubblica al nostro Paese – mentre dalla nuova Commissione ancor più a trazione tedesca arriveranno molti denari.

Nella ripartizione della goccia dei 7,5 miliardi di contributi europei nell’oceano dei più di 3.000 miliardi di euro che dovranno (dovrebbero) essere investiti per conseguire l’utopica European Green Deal (vedi post 17 gennaio), alla Germania andranno 876 milioni di euro (subito dopo la Polonia con 2 miliardi), mentre all’Italia andranno 364 milioni in barba agli enormi costi sopportati per abbattere le emissioni 1,6 volte più di quelle tedesche.

Insomma al sano principio ‘chi inquina paga’ si è sostituito ‘chi inquina incassa’.

La cosiddetta uscita dal carbone della Germania è poi non solo tardiva ma per certi versi bizzarra. Nel 2019 in Renania si è infatti in inaugurata una nuova potente centrale a carbone da 1.000 MW dal costo di 1,1 miliardi di dollari che non sarà certamente dismessa nell’arco di quindici-venti anni, in barba alla carbon exit, mentre si stima che emetterà 6-8 milioni di tonnellate aggiuntive di CO2 all’anno.

Al di là dell’incoerenza della politica tedesca quel che preoccupa è infine l’impatto che ne deriverà sul sistema elettrico tedesco e parallelamente su quello europeo.

Così come nel 2011 con la decisione di Angela Merkel di uscire dal nucleare, con l’immediata chiusura di otto reattori (inizialmente temporanea poi permanente) e quella prevista per le altre nove entro il 2022 (prima prevista per il 2036), anche per l’uscita dal carbone niente è stato concordato, comunicato, discusso con Bruxelles, quasi che l’accresciuta interdipendenza dei mercati/sistemi elettrici non richiedesse un minimo di concertazione. Altro che market coupling!

La prossima chiusura dei reattori nucleari e quella graduale delle centrali a carbone sottrae infatti al sistema elettrico il 48% degli attuali input (rispettivamente 12% e 26%) che dovrebbero essere soppiantati dalle rinnovabili previste salire a fine decennio dal 35% al 65%.

Da qui problemi di tenuta del sistema anche in considerazione del fatto che il grosso delle rinnovabili proviene dall’eolico nel nord del Paese con infrastrutture insufficienti a veicolarlo nelle aree a maggior consumo.

La scelta tedesca – al di là degli effetti benefici che produrrà nel lungo termine nelle emissioni interne che rappresentano 1/5 di tutte quelle dell’Unione – conferma che la sovranità energetica nazionale è vieppiù incompatibile con un qualsiasi disegno di Europa dell’energia.

In sintesi: Energy Union è sempre più un ossimoro.

(estratto di un articolo di Rivista Energia, qui la versione integrale)

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