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Turchia Siria

Energia, cosa succede tra Usa, Turchia e Israele?

Prove tecniche di riavvicinamento (in chiave energetica) tra Usa, Turchia e Israele

Nonostante i pessimi rapporti nutriti dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan tanto con gli Usa quanto con il loro alleato Israele, non sono mancati in questo periodo segnali che denoterebbero la volontà dei tre Paesi di lasciarsi alle spalle le antiche acredini e proseguire lungo un sentiero di cooperazione sicuramente vantaggioso per tutte le parti.

Agenzia Nova, che li ha messi tutti in fila, comincia il suo excursus segnalando il colloquio telefonico di sabato 24 maggio tra Erdogan e il suo omologo Trump, che avrebbero discusso a lungo dei temi della stabilità regionale, soffermandosi in particolare sui fronti caldi di Siria e Libia, concordando di rilanciare una cooperazione militare e politica fattasi troppo rarefatta negli ultimi tempi.

Fu sulla Siria, ricordiamo, che l’anno scorso la cooperazione tra Ankara e Washington traballò per mesi dopo la decisione di Erdogan di invadere il nord del Paese in un un’offensiva anti-curda che indignò non solo il popolo americano e costrinse l’amministrazione Trump a scelte rocambolesche ed in extremis per scongiurare il patatrac nel Levante.

Ma ad avvelenare le relazioni turco americane in quello stesso periodo intervenne anche l’affaire S-400, il sistema russo di difesa anti-aerea che Erdogan ha acquisito da Mosca nonostante i moniti di Washington – e la minaccia ancora pendente di sanzioni – incentrati sull’incompatibilità tra il possesso di quel sistema e la partecipazione al progetto JSF di cui Ankara è un partner.

Ma è proprio questo il fronte su cui Erdogan sembra ora cercare un appiglio con l’ex alleato, come gli fece comprendere nella lettera trasmessagli ad aprile nella quale, nonostante l’argomento in discussione fosse la crisi del Covid-19, il rais fece intendere al suo interlocutore di aver ritardato l’attivazione dei sistemi S-400 proprio alla luce dell’emergenza sanitaria.

A questo primo bocconcino, Erdogan ne ha aggiunto uno destinato a compiacere non poco il suo interlocutore: la decisione del suo governo, confermata dal portale d’informazione turco “Ahval”, di rinviare misteriosamente la riparazione di un gasdotto con l’Iran obiettivo di un attacco alla fine di marzo.

Un ritardo di cui a Teheran dicono di non afferrare le ragioni, a meno che non sia vera la versione del ministro del Petrolio Bijan Namdar Zangeneh secondo cui la Turchia si starebbe semplicemente rifiutando di iniziare i lavori.

Ma per quanto gradito, un buffetto ad un nemico storico degli Usa è poca cosa rispetto ad un’altra e ben più danarosa mossa come l’aumento delle importazioni del suo gas naturale liquefatto, passato dalle quattro navi cargo del 2018 alle tredici del 2019 fino alle 23 dell’anno in corso. Un colpo pensato per centrare due obiettivi al tempo stesso: lanciare un segnale inequivocabile di disponibilità a Washington ed esercitare una formidabile pressione Repubblica islamica affinché diminuisca il prezzo del suo gas con cui Ankara copre circa il 17 per cento del proprio fabbisogno turco.

Ciò che colpisce, dell’offensiva pro Usa di Ankara, e che forse non rappresenta un parto del caso, è il suo correre in parallelo ad altre grandi manovre di avvicinamento che la Turchia sta facendo questa volta in direzione di Gerusalemme.

Non sarà una passeggiata ripristinare le relazioni diplomatiche a 18 mesi da quando Erdogan, indignato per il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, fece rientrare in patria il proprio ambasciatore. Né sembra del tutto ricucito lo strappo dell’estate di dieci anni fa, quando un convoglio di ong turche tentò di forzare il blocco di Gaza innescando uno scontro con l’esercito israeliano che fece dieci vittime tra il personale a bordo della “Freedom Flottilla”.

Eppure, l’imminente insediamento di un nuovo governo a Gerusalemme dopo 18 mesi di stallo politico e la nomina del nuovo ministro degli Esteri dello Stato ebraico nella persona di  Gabi Ashkenazi sembrano fornire l’opportunità tanto attesa per un disgelo voluto in primis dalla parte israeliana – se è vero quanto fonti diplomatiche hanno riferito ad Agenzia Nova, ossia che in Terra Santa è forte la volontà di riallacciare piene relazioni con la Turchia.

Le ragioni di questo auspicio sono state chiarite qualche giorno fa dall’incaricato d’affari israeliano in Turchia Roey Gilad, che ha additato un punto fondamentale di convergenza tra i due Paesi: la Siria.

Comune a Israele e Turchia è infatti l’avversione per il radicamento iraniano in Sira, che per la seconda ha comportato anche un elevato prezzo di sangue quando tre mesi fa le truppe di Ankara schierate nel Paese si sono trovate al centro di scontri con le armate alleate del dittatore di Damasco Bashar al-Assad – tra cui si annida un potente alleato di Teheran, ossia Hezbollah – lasciando sul terreno più di 50 soldati morti.

Ed è proprio qui che Gilad intravede la convergenza di interessi tra il suo Paese, che continua a compiere in Siria – senza mai rivendicarle – incursioni aeree su obiettivi iraniani e di Hezbollah dando più di qualche filo da torcere agli ayatollah.

Secondo il diplomatico tuttavia c’è spazio anche per approfondire la cooperazione in altri campi come il commercio, il turismo e la cooperazione accademica.

Ma a favorire la normalizzazione dei rapporti secondo Gilad potrebbe essere un fattore rilevante come l’energia, e c’è chi giura che qualcosa si sta già muovendo sottobanco. Un recente articolo di “Middle East Eye”, portale online con sede a Londra considerato vicino ai Fratelli musulmani (dunque al governo turco), sostiene che Israele punta sulla normalizzazione con Ankara per sfruttare in modo condiviso i giacimenti di idrocarburi nel Mediterraneo Orientale.

Naturalmente quella di Middle East Eye potrebbe essere una mera provocazione finalizzata ad intorbidare le acque: la cronaca al momento dice del resto che Ankara, al momento, si trova sulla sponda opposta di un folto schieramento di attori che osteggia le mosse e le mire di Erdogan nel Mare Nostrum. E tra questi attori, oltre all’Italia, c’è proprio Gerusalemme.

Sbrogliare la matassa dei diritti sui giacimenti di gas nel Mediterraneo Orientale potrebbe rivelarsi tuttavia meno complicato che superare un ostacolo formidabile come la questione palestinese, su cui la Turchia ha sempre mantenuto una posizione intransigente.

Ma a volte accadono anche i miracoli, ed ecco così che domenica scorsa su una pista dell’aeroporto di Istanbul è atterrato – a dieci anni dall’ultima volta – un aereo cargo della compagnia israeliana El Al Airlines.

Sebbene si trattasse solo di uno scalo tecnico in vista della destinazione finale (new York), la presenza di quel Boeing 787 Dreamliner della El Al ha colto tutti di sorpresa.  Appena tre mesi fa, infatti, la Turchia aveva negato ai velivoli di Israir Airlines e di Tourism Ltd il permesso di atterrare a Istanbul per rimpatriare gli studenti israeliani bloccati in Turchia.

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