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Energia

Pnrr, ecco come e perché l’Europa non regala soldi all’Italia

Che cosa si dice e che cosa non si dice sul Pnrr. L'analisi di Giuseppe Liturri

 

Con i fondi del Pnrr l’Italia incassa più di quanto versa alla Ue”. Così domenica 16 gennaio titolava a tutta pagina il Sole 24 Ore, gettandoci nel panico perché – sin dai primi annunci del Recovery Fund – su queste colonne abbiamo sempre sostenuto il contrario. Confessiamo altresì di aver avuto bisogno di qualche giorno per ricontrollare tutte le norme ed essere certi che non avessimo perso per strada qualche novità dell’ultima ora in materia.

La tesi sostenuta nell’articolo è che sia tutto “merito” del Pnrr, in particolare dei circa 9 miliardi di sussidi incassati ad agosto, insieme a circa 16 miliardi di prestiti. Tale cifra avrebbe fatto cambiare il segno del saldo – storicamente negativo intorno ai 5/6 miliardi annui – e lo avrebbe portato in positivo per 3,2 miliardi nel 2021.

L’articolo sottolinea che ciò “non era mai accaduto e l’Italia non si era mai trovata in questa situazione, cioè tra i Paesi poveri dell’Unione e dunque destinatari della solidarietà e delle risorse comuni”. Purtroppo ci dispiace spegnere sul nascere il trionfalismo del quotidiano di Confindustria, ma quanto affermato equivale ad esultare per l’incasso di un mutuo, dimenticando che, dopo pochi mesi, ci sarebbero da pagare le rate di rimborso. Sono state semplicemente sommate mele con pere.

Il come è presto spiegato. Prima del NGEU, il bilancio della Ue, da poco meno di 1.100 miliardi in sette anni, non prevedeva l’indebitamento. Per ogni anno, le entrate dovevano uguagliare le uscite. Tutti i Paesi contribuivano alle entrate Ue in proporzione al rispettivo PIL e ricevevano sussidi secondo una diversa ripartizione. Questa asimmetria nella ripartizione di entrate ed uscite – acquisite a titolo definitivo – ha portato ad avere alcuni Paesi contributori netti (l’Italia al terzo posto) ed altri beneficiari netti.

Il NGeu – bilancio straordinario da 750 miliardi tra sussidi e prestiti – si è aggiunto a quello ordinario e prevede che la Ue possa finanziare le uscite a favore degli Stati membri con prestiti, assunti emettendo titoli sul mercato. In particolare il Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza (RRF), cuore del NGEU, prevede di erogare 312,5 miliardi di sussidi e 360 miliardi di prestiti. Su quest’ultima voce, che vale 122 miliardi per l’Italia, il saldo è sempre zero: la Ue si indebita, utilizza i fondi per i prestiti agli Stati e poi rimborsa i titoli emessi per mezzo dei rimborsi di ciascun Paese. Un giro di denaro, dove la convenienza per gli Stati starebbe nel minor tasso che pagherebbero alla Ue rispetto a quello che avrebbero pagato emettendo titoli direttamente. Si potrebbe dissentire anche su questo, ma sorvoliamo e fissiamo bene in mente che una parte del NGEU è un debito sin dall’inizio, come confermato dal fatto che i 16 miliardi incassati ad agosto fanno già bella mostra di sé nelle statistiche del debito pubblico.

Meno immediato è il calcolo per i 69 miliardi circa che dovrebbero spettare all’Italia a titolo di sussidi che qualcuno continua a chiamare “a fondo perduto”, evocando l’idea dell’inesistente regalo. Il Tesoro dovrebbe incassarli in dieci rate semestrali entro giugno 2026 ma, fino ad allora, nessun contributo sarà richiesto all’Italia, solo e soltanto perché la Ue si è indebitata e richiederà i contributi non oggi ma a partire dal 2027 per rimborsare i titoli in scadenza. Anzi, sin da oggi, per consentire alla Ue di emettere quei titoli con rating tripla A, l’Italia si è costituita garante per lo 0,6% del PIL (circa 11 miliardi/anno) e non è affatto escluso che Eurostat chieda di conteggiare immediatamente tale garanzia nel debito pubblico.

Date queste premesse, solo chi è completamente a digiuno di elementari norme di finanza e contabilità si azzarderebbe quindi a considerare in modo isolato i 9 miliardi di sussidi incassati nel 2021, sommandoli ai flussi del bilancio ordinario, senza collegarli alla garanzia già operante ed ai contributi differiti dovuti dal 2027.

Su quest’ultimo fronte, la Commissione è da tempo al lavoro per aumentare le cosiddette risorse proprie (cioè tasse), diminuendo la quota di contributi richiesti agli Stati in proporzione al PIL. Ma la proposta di Palazzo Berlaymont – attesa per dicembre – non è ancora pronta. In ogni caso si tratterà di somme richieste ai contribuenti degli Stati membri, direttamente o per interposto Governo nazionale.

Nessuno oggi è ragionevolmente in grado di dire quanti contributi dovrà versare l’Italia a fronte dei 69 miliardi di sussidi, per determinare così il saldo netto. Se, per ipotesi, fosse chiamata a contribuire alla copertura dei 312 miliardi di sussidi in proporzione al PIL, dovrebbe versare circa 41 miliardi (a dati attuali) con un saldo positivo di 28 miliardi. Cifra che è molto improbabile che ribalti il saldo negativo del bilancio ordinario. Dovremmo quindi restare contributori netti, ma i conti del NGEU non si potranno fare prima del 2027, non oggi dopo il primo acconto.

Per adesso ci limitiamo a convenire con la premessa dell’articolo, secondo la quale “non ci si può limitare al calcolo ragionieristico delle risorse finanziarie”. Ecco, sarebbe stato opportuno proprio evitare tale calcolo, considerato il rischio di scivolate su principi fondamentali, cercando il sostegno di slogan vuoti come il “valore aggiunto europeo”.

Deve essere chiaro che la Ue non regala nulla: quando dà qualcosa, poi comunque la riprende. In genere con gli interessi e con saldo negativo per il nostro Paese.

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