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Energia

Perché l’Ue insiste a bastonare Polonia e Ungheria?

L'analisi di Giuseppe Liturri

 

Mercoledì 16 febbraio si è consumato l’ennesimo episodio che vede ormai contrapposte da anni, da una parte Polonia e Ungheria e, dall’altra, le principali istituzioni dell’Ue.

È infatti stata rigettata dalla Corte di Giustizia con sede a Lussemburgo la richiesta di annullamento del regolamento 2092 del dicembre 2020 per la protezione del bilancio dell’Unione, avanzata da Varsavia e Budapest.

La vicenda affonda le proprie radici nel lunghissimo Consiglio Europeo del luglio 2020 – quello in cui furono poste le fondamenta del Recovery Fund – durante il quale si decisero anche le linee guida di un regolamento che avesse l’obiettivo di condizionare l’erogazione di fondi unionali al rispetto dei principi dello Stato di diritto. Nei mesi successivi, i due Paesi riottosi minacciarono a lungo di far mancare l’unanimità necessaria per l’approvazione del bilancio UE da parte del Consiglio, perché fermamente intenzionati ad opporsi al regolamento faticosamente messo a punto dalla Commissione. Il compromesso raggiunto prevedeva che la Commissione avrebbe rinunciato ad esercitare la sua azione di soggetto propulsore delle misure sanzionatorie poi adottate dal Consiglio, fino al momento in cui la Corte di Giustizia non si fosse pronunciata sulle obiezioni mosse da Polonia e Ungheria. In sostanza il regolamento fu messo nel congelatore.

Eccoci così giunti alla sentenza del 16 febbraio, che peraltro non giunge a sorpresa perché già il 2 dicembre scorso, l’avvocato generale Campos Sánchez-Bordona, nelle sue conclusioni, che tuttavia non vincolano la Corte di giustizia Ue, aveva respinto le obiezioni dei ricorrenti che fondavano anche su un parere riservato del servizio giuridico del Consiglio formulato nella fase di gestazione del regolamento.

Però la Corte, nel respingere il ricorso, ha depotenziato molto la portata del Regolamento circoscrivendone bene la base giuridica, che era una delle contestazioni di polacchi ed ungheresi. Il regolamento viene ricondotto nel suo alveo, ben più stretto di quello che ancora dopo la sentenza veniva esaltato da certi commenti  o da certa propaganda – che forse non l’ha nemmeno letto – da sempre incline a vederlo come il Santo Graal dei valori fondanti dell’Unione. Nulla di tutto questo, il raggio di azione del regolamento è molto più circoscritto. È una norma generale e di chiusura (perché molti regolamenti, come il RRF, hanno già al loro interno delle specifiche norme che bloccano i pagamenti al mancato rispetto di certe condizioni).

I giudici ritengono che debbano concorrere contemporaneamente diversi fattori, affinché scattino le sanzioni: per prima cosa deve esserci l’accertamento delle violazioni dei principi dello Stato di diritto, poi si richiede un diretto ed effettivo nesso causale che porti a concludere che tali violazioni compromettano o rischino seriamente di compromettere la sana gestione finanziaria del bilancio della UE ed i suoi interessi finanziari. Senza coinvolgimento degli interessi finanziari, il regolamento non opera, pur in presenza di violazioni.

La Corte respinge con decisione anche un’altra obiezione dei ricorrenti, che contestavano la nozione stessa di “Stato di diritto”, eccependo che non fosse codificata da nessuna parte. I giudici ricordano che in tale nozione rientrano “i principi di legalità, in base alla quale il processo legislativo deve essere trasparente, responsabile, democratico e pluralistico; certezza del diritto; divieto di arbitrarietà del potere esecutivo; tutela giurisdizionale effettiva, compreso l’accesso alla giustizia, da parte di organi giurisdizionali indipendenti e imparziali, anche per quanto riguarda i diritti fondamentali; separazione dei poteri; non-discriminazione e uguaglianza di fronte alla legge”. Tutti principi che la Corte ritiene sufficientemente contemplati dal regolamento ed ampiamente elaborati dalla sua giurisprudenza. Per cui non paiono esserci dubbi sul loro contenuto e sulla loro precisione. Anche su questo, però la Corte effettua parecchie precisazioni che suonano come limiti a chi vedeva questo strumento come un manganello buono per tutte le stagioni.

A questo punto viene spontaneo chiedersi se il problema del rispetto di tale ampia e ben codificata nozione dello Stato di diritto esista solo in Polonia e Ungheria. Perché, a giudicare dal verminaio portato allo scoperto dal caso Palamara, o pensando all’uso indiscriminato e illegittimo dei DPCM da parte del governo Conte o dei decreti legge – divenuti ormai strumento di legislazione ordinaria, con il Parlamento chiamato solo a schiacciare il pulsante dei voti di fiducia –  da parte del governo Draghi, qualche dubbio sorgerebbe pure sull’Italia.

Ora la palla passa alla Commissione che, non a caso, ha reagito in maniera prudente, promettendo di definire delle linee guida per l’applicazione del Regolamento. Quindi nessuna reazione immediata contro i reprobi della sponda orientale della UE.

Le misure sanzionatorie a carico degli Stati, decise dal Consiglio, consisteranno sostanzialmente nella sospensione dei pagamenti a carico del bilancio della UE e nella sospensione dell’approvazione dei programmi a carico di tale bilancio.

Ma anche qui, nulla di particolarmente dirompente. Ungheria e Polonia sono ancora in attesa dell’approvazione dei rispettivi Recovery Plan e già oggi subiscono, di fatto e senza alcuna tutela giurisdizionale, il ricatto della Commissione, senza che il regolamento a cui loro si sono infruttuosamente opposti sia mai stato applicato.

 

 

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