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Nuovo Mes

Ecco come funzionano davvero Mes, Sure e Recovery Fund

Che cosa è emerso dalle recenti audizioni parlamentari in materia di Mes, Sure e Recovery Fund

(seconda parte di un approfondimento sulle audizioni parlamentari; qui la prima parte)

Bankitalia, rappresentata dal Capo del Dipartimento Economia e statistica, Eugenio Gaiotti, ha fornito dati interessanti circa l’andamento del programma di acquisti di titoli pubblici partito nel 2015 (Pspp), e ci ha confermato il ruolo decisivo che sta svolgendo in queste settimane a sostegno del mercato dei nostri titoli.

Al 31 marzo, il loro valore in portafoglio alla BCE è pari a 382 miliardi, di cui 346 detenuti direttamente nel bilancio di Bankitalia. Nel solo mese di marzo, ci sono stati ben 12 miliardi di acquisti netti. Cosa ancora più rilevante, il nuovo programma PEPP annunciato il 18 marzo per 750 miliardi, al 24 aprile, ha generato acquisti per 96,7 miliardi (di cui però non si conosce la ripartizione tra gli Stati). A questo proposito, Gaiotti, rispondendo ad una domanda del Presidente Claudio Borghi, ha evidenziato che il programma gode di ampia flessibilità, anche nell’importo massimo, oltre che nella ripartizione tra Stati e nella concentrazione temporale degli interventi. Quindi la BCE dimostra la sua presenza con i fatti.

Interessante anche la risposta alla domanda del deputato Luigi Marattin, tesa a comprendere se il Mes “senza condizioni” di cui si millanta l’esistenza, fosse condizione necessaria, ancorché non sufficiente per accedere al programma di acquisti illimitato di titoli pubblici (Omt) della Bce. E qui l’asciutta prosa di Gaiotti ha avuto l’effetto di un bulldozer. Ha dapprima affermato che “il Mes (quello fantomatico, nda) non è arrivato alla fase operativa”, ammettendo quindi che non sono sufficienti due righe di un comunicato stampa di un Consiglio Europeo per dargli rango di Trattato; ha poi aggiunto che comunque il programma Omt è stato pensato per esigenze diverse, e cioè “situazioni di crisi specifica”, e non per uno shock economico simmetrico come quello in atto. Con ciò mettendo una definitiva pietra tombale su una delle presunte virtù salvifiche del Mes, tanto decantate da Marattin stesso e da altri commentatori.

Ma il clou è arrivato quando Gaiotti ha risposto ad una domanda di Borghi, finalizzata a comprendere se Bankitalia avesse un piano per fronteggiare un’eventuale decisione della Corte Costituzionale tedesca avversa al Pspp, attesa per il 5 maggio. Gaiotti ha affermato che si tratta di un tema comunque già superato grazie ad una sentenza della Corte Europea e che la decisione della Corte tedesca, quale essa sia, “riguarda solo la Germania”. Aprendo con ciò, uno scenario con risvolti potenzialmente distruttivi dell’eurozona. Infatti, Gaiotti non può non sapere che se la Bundesbank fosse obbligata ad astenersi dagli acquisti verrebbe meno il principale braccio operativo del programma APP. Cosa accadrebbe? Avremmo una BCE che opera senza la Germania e, in prospettiva, un euro senza la Germania? Si può quindi segmentare l’eurozona a discrezione di un partecipante? Una bomba ad orologeria pare pronta ad esplodere.

Non meno rilevanti le osservazioni del Presidente dell’Upb, Giuseppe Pisauro che ha illustrato due scenari circa la situazione delle emissioni dei nostri titoli pubblici, in relazione al programma di acquisti della Bce. Nel 2020, a fronte di emissioni lorde per 550 miliardi (inclusive dei rimborsi per 372 miliardi), gli acquisti ed i reinvestimenti della Bce potrebbero essere pari a 195 miliardi, e quindi residuerebbero ancora 355 miliardi di emissioni lorde da collocare sul mercato. Le emissioni nette dovrebbero essere pari a 28 miliardi. In altre, parole la Bce sembra in grado di sostenere adeguatamente il nostro maggior fabbisogno, ed al mercato dovremmo richiedere di rinnovare i titoli in scadenza, oltre ad aggiuntivi 28 miliardi. Una ulteriore conferma del ruolo decisivo ed insostituibile di Francoforte.

Inoltre, il Presidente Pisauro ha confermato quanto vi avevamo scritto tempo fa sul Sure. Un fondo che erogherà prestiti agli Stati membri che però, per finanziarsi sui mercati a tassi favorevoli, dovrà raccogliere 25 miliardi di garanzie, di cui ben 3,2 a carico dell’Italia. Poiché tale fondo non può erogare complessivamente ogni anno più di 10 miliardi, è abbastanza certo che il primo anno l’Italia riceverà un prestito inferiore al valore delle garanzie prestate. Non esattamente un grande affare. C’è di che essere preoccupati di fronte alla pochezza di tali soluzioni.

Le preoccupazioni aumentano anche alla luce della indisponibilità di altre soluzioni per il finanziamento del nostro fabbisogno. Infatti, Vera Jourova vice presidente della Commissione, ha dichiarato che la loro proposta per il Recovery Fund, attesa per il 6 maggio, è ora prevista per la “seconda o terza settimana di maggio” e l’operatività del fondo per gennaio 2021 è un obiettivo “ambizioso” che, nel linguaggio felpato della burocrazia europea, significa che non partirà mai per quella data.

Mercoledì 29 è arrivato pure il Financial Times a sollevare il velo sul cumulo di numeri falsi ed ipotesi insostenibili millantati dalla Commissione a proposito del Recovery Fund. In primis, è molto probabile che i fondi raccolti sul mercato dalla Commissione servano per erogare prestiti anziché sussidi e per l’Italia sarebbe ancora e sempre debito e pure col guinzaglio corto del creditore privilegiato che vuole essere ripagato a scadenza, mentre il BTP si può sempre rinnovare, soprattutto quando detenuto dalla Banca Centrale.

I funzionari UE vengono accusati di essere esperti nel riempire i bilanci di illusioni ottiche. Un sapiente gioco di fumo e specchi. La cifra di 1000/1500 miliardi che circola dal 23 aprile è un banale inganno, infatti tiene conto di investimenti privati che potrebbero essere innescati da chi riceverà prestiti o sovvenzioni. Un numero che è scritto sul ghiaccio, soprattutto in questo momento di crisi della domanda. Ma lo scoglio su cui tutto il progetto rischia di infrangersi è la scelta di collegare questo fondo al bilancio UE, un vero e proprio “Vietnam” in cui i Paesi membri sono impantanati da quasi 2 anni. Le risorse provenienti da questo bilancio, dovrebbero costituire la garanzia per le emissioni dei titoli e dovrebbero anche garantire il pagamento degli interessi, oltre a dover coprire il rimborso del capitale agli investitori nel caso si eroghino anche sussidi.

Nello stesso giorno abbiamo appreso che anche il quotidiano La Repubblica ha scoperto che il Mes non può che essere quello previsto dai Trattati. Con monitoraggio, sorveglianza rafforzata ed eventuale imposizione di programma di aggiustamento macroeconomico, seppur non inizialmente previsto.

Quando ancora non si sa come e quando si prenderanno i soldi, Federico Fubini sul Corriere della Sera ha riportato alcune ipotesi relative al loro utilizzo che, se confermate, non appaiono positive per il nostro Paese. Fubini ipotizza che il fondo ricapitalizzi e quindi assuma delle partecipazioni in imprese in settori dell’”aristocrazia industriale europea”, tra cui filiera dell’auto, aereonautica, compagnie aeree e banche. Non ci vuole un esperto di politica industriale per far correre subito la mente a Lufthansa, Commerzbank, Deutsche Bank, Volkswagen. Rendendosi anch’egli conto che il fondo è un cantiere aperto a lungo termine, Fubini allora fa affidamento sulla Bce. Ma la sua ipotesi – Bce bloccata dalla sentenza della Corte tedesca, panico sui mercati, Italia che fa ricorso al Mes e quindi accede al programma di acquisti OMT – è stata frantumata proprio giovedì pomeriggio da Christine Lagarde in persona. Alla domanda se il Mes fosse idoneo per l’accesso all’Omt, la risposta è stata perentoria: il programma OMT è stato istituito per particolari circostante e situazioni di specifiche crisi che potrebbero mettere a rischio l’eurozona. Oggi, invece, siamo in presenza di una crisi che investe tutti e lo strumento adatto è il Pepp, a proposito del quale ha ribadito che sarà usato con la massima flessibilità, pur non aumentandone al momento l’importo massimo, come auspicato da alcuni analisti.

L’imbarazzo montante in Europa per la pochezza degli strumenti sul tavolo, Mes a parte, è risultato evidente quando la giornalista del Financial Times, Mehreen Khan, ha riferito che il portavoce di Ursula Von der Leyen, Eric Mamer, non lo chiama non più “fund” ma “initiative”. Che, nella decisiva semantica della burocrazia europea, in cui le parole non sono usate a caso ma fanno la differenza, è una netta retrocessione.

Difficoltà confermate anche dalle parole del Commissario Paolo Gentiloni che, ad un evento di +Europa, ha ammesso la trappola in cui si sono cacciati legando il fondo al bilancio UE. Infatti, in questo modo, non potrà essere avviato nulla prima del gennaio 2021, ammesso che si trovi un accordo. Allora i tecnici sono al lavoro per anticiparlo al prossimo semestre “perché i rischi per il mercato unico e le differenze tra Paesi si manifesteranno in autunno, non in primavera dell’anno prossimo”. Ma Gentiloni sa bene che trovare un sistema provvisorio di garanzie per anticipare il fondo, significa infilarsi in un ginepraio almeno pari a quello del bilancio UE.

Come al solito, ci racconteranno con ritardo una verità: un fondo basato legalmente sull’art. 122 del Tfue sarà autorizzato ad indebitarsi solo per erogare prestiti, con modesto impatto macroeconomico. Eventuali sussidi potranno essere finanziati solo da contributi degli Stati membri, ed il saldo tra sussidi e contributi vedrà il nostro Paese irrimediabilmente perdente.

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