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Fed Bce

Vi spiego le svolte delle banche centrali su inflazione e occupazione

La morale è che la Fed non alzerà i tassi dallo zero attuale fino a che l’inflazione non sarà stata per almeno un paio d’anni al tre per cento. L'analisi di Alessandro Fugnoli, capo strategist dei fondi Kairos

La liturgia delle banche centrali si fa sempre più complessa. Una volta, come ha ricordato Powell, ci si riuniva in gran segreto di sabato in una Washington deserta per decidere svolte di portata storica (come accadde nell’ottobre 1979, quando venne dichiarata guerra all’inflazione, una guerra che sarebbe durata trent’anni).

Oggi, per revisioni strategiche meno radicali, si mette in piedi una macchina di costruzione del consenso simile a quella dei grandi partiti politici quando preparano i loro congressi. Si parte da lunghi mesi di incontri con le comunità locali, preferibilmente disagiate, e ci si mette all’ascolto delle loro esigenze. Si elabora poi il tutto prima in confronti con il mondo accademico e poi con le varie centinaia di PhD che popolano gli uffici studi. Alla fine si distillano questi mesi di lavoro in un documento che farà da base per le scelte degli anni successivi.

La Fed aveva compiuto la sua ultima revisione strategica nel 2012. Oggi completa e annuncia al mondo la linea per il prossimo decennio e dà maggiore solennità all’evento scegliendo lo sfondo (quest’anno virtuale) delle montagne del Wyoming dove ogni anno tiene i suoi seminari strategici. Anche la Bce, con la stessa liturgia, ha terminato nei mesi scorsi la sua revisione strategica.

Che cosa è venuto fuori da questo sforzo? La Bce ha deciso di mettere al centro della sua attività la lotta ai cambiamenti climatici, allineandosi allo spirito del tempo europeo.

La Fed, dal canto suo, ha volato più basso e, pur perfettamente sintonizzata con gli umori politici di un’America agitata e nevrotica, ha mantenuto un profilo più tecnico. Ha cioè lavorato di fino sui due mandati paralleli che il Congresso le ha affidato, il controllo dell’inflazione e il perseguimento della massima occupazione. Su entrambi i fronti ci sono novità. O, per dirla meglio, c’è la proclamazione solenne, incisa nella pietra, di novità che erano già nell’aria da un paio d’anni e che erano già nei documenti ufficiali e nella mente dei mercati, ma non con la forza conferita loro da un documento solenne.

In pratica sul primo fronte, quello dell’inflazione, il famoso obiettivo del 2 per cento (che a suo tempo destò molti dubbi sia perché alto sia perché arbitrario) viene formalmente confermato. Ma non si tratta più di un 2 per cento resettato ogni anno, ma di un 2 per cento medio nel tempo (in un tempo volutamente lasciato nel vago). In pratica la banca centrale si riserva di recuperare l’inflazione eventualmente non realizzata nella fase precedente superando temporaneamente (per uno o più anni) il tetto del 2 per cento.

Che le banche centrali abbiano superato in passato i loro obiettivi d’inflazione è ben noto. La stessa Bce, costruita, a differenza della Fed, sull’unico mandato del controllo dell’inflazione, non è mai riuscita nel suo intento (definito con pignoleria come vicino ma inferiore al 2 per cento) ed ha accettato il 3 per cento nel suo primo decennio e l’uno per cento dopo la Grande Recessione. Questa volta però, nel caso della Fed, non si tratta di mancare un obiettivo ma di annunciare di volerlo mancare (ovvero, nella fattispecie, di volerlo alzare per qualche anno).

Il concetto di inflazione media era già stato introdotto da mesi nei comunicati del Fomc. Ora diventa policy ufficiale.

Il secondo fronte di affinamento, quello dell’obiettivo di occupazione, è stato meno notato dal mercato, ma è forse ancora più importante. Fino a qualche anno fa, le banche centrali calcolavano il livello massimo di occupazione che si poteva raggiungere senza generare inflazione salariale. Appena ci si avvicinava a quel livello (prima di raggiungerlo) si cominciava ad alzare i tassi. Da qualche anno, i dubbi crescenti sull’efficacia della curva di Phillips (che lega tra loro occupazione e inflazione) avevano indotto le banche centrali a maggiore prudenza.

Oggi la curva di Phillips, che pure è ancora presente nei grandi modelli econometrici delle banche centrali, viene dichiarata ufficialmente decaduta. La Fed proclama infatti che da qui in avanti reagirà solo all’occupazione troppo bassa e non farà invece nulla nel caso l’occupazione sia più alta di quella definita massima dai suoi modelli. Nei prossimi anni, quindi, la Fed alzerà i tassi solo in caso di inflazione conclamata, non nel caso di inflazione sospettata per troppa occupazione.

La morale è che la Fed non alzerà i tassi dallo zero attuale fino a che l’inflazione non sarà stata per almeno un paio d’anni al tre per cento. Ci saranno quindi anni, i prossimi, in cui la Fed (e con lei molte altre banche centrali) faranno di tutto perché la liquidità e i titoli sicuri perdano il tre per cento di potere d’acquisto ogni anno (e in due anni fa già il sei). Per le borse e per l’oro, quindi, non siamo più alla rete di sostegno (la put) delle banche centrali, ma a una molla che spinge verso l’alto.

Spingerà verso l’alto, questa molla, anche l’economia globale? Certamente sì, anche se non sappiamo in quale misura. Alcuni commentatori hanno fatto notare che i nuovi obiettivi ufficiali della Fed non sono sostanziati dall’annuncio delle politiche atte a raggiungerli. È vero, ma è nello stile di Powell lasciare le cose nel vago per avere flessibilità. Non è quindi il caso di avere troppi dubbi sulla determinazione a reflazionare. Nei prossimi anni chi non reflazionerà abbastanza verrà mandato a casa e sostituito da qualcuno ancora più reflazionista.

Avremo allora l’iperinflazione, come non pochi cominciano a dire? Qui occorre essere chiari. L’iperinflazione è un’ipotesi, solo un’ipotesi e nemmeno così tanto probabile, per la seconda metà del decennio. Per la prima metà avremo il tre per cento e solo a partire dal 2022

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