skip to Main Content

Trump Silicon Valley

Trump, Tillerson, Pompeo, Haspel. Vi racconto il Trono di Spade alla Casa Bianca

L’analisi di Giovanni Collot   Il Trono di Spade, nonostante la sua ambientazione fantastica, è forse il prodotto culturale attuale che descrive in maniera più precisa le dinamiche del potere. Nel terzo episodio della seconda stagione abbiamo un perfetto esempio. Varys, lo scaltro consigliere di corte, pone un indovinello al nano Tyrion Lannister, fratello della regina,…

 

Il Trono di Spade, nonostante la sua ambientazione fantastica, è forse il prodotto culturale attuale che descrive in maniera più precisa le dinamiche del potere. Nel terzo episodio della seconda stagione abbiamo un perfetto esempio. Varys, lo scaltro consigliere di corte, pone un indovinello al nano Tyrion Lannister, fratello della regina, su chi tra un gruppo di individui possegga il vero potere. è forse il re, che presiede al diritto? O il prete, che governa le coscienze? Oppure, è l’uomo più ricco del gruppo a detenere il vero potere, quello d’acquisto? O è infine il mercenario, che non ha né corona, né autorità spirituale, né ricchezze, ma porta la spada, e ha quindi facoltà di vita e di morte?  La risposta: “Il potere è una cosa curiosa: risiede dove gli uomini pensano che risieda. è un’ombra sul muro. E anche un uomo molto piccolo può proiettare una grande ombra”.

Raramente questo carattere mutevole del potere si è rivelato in modo più chiaro che all’interno della Casa Bianca di Donald Trump. è come se l’attuale Presidente, entrato a Washington da outsider, avesse lasciato da parte tutte le consuetudini stabilite negli anni per che razionalizzavano lo scontro tra le personalità “di corte” e rendevano il Presidente pienamente commander in chief. Al loro posto, via libera agli animal spirits della competizione tra individui alla ricerca di influenza ai più alti livelli del governo.

A distanza di soli otto mesi dall’insediamento, la Casa Bianca ha già visto il licenziamento o le dimissioni in quasi tutti i ruoli di più alto grado vicini al Presidente. Il Chief of Staff  Reince Priebus, sostituito dal Generale John Kelly lo scorso agosto, è stato solo l’ultimo di una lunga serie di teste tagliate: da Michael Flynn, consigliere per la sicurezza nazionale dimessosi già a febbraio per i suoi contatti con le autorità russe, al portavoce Sean Spicer, per arrivare fino alle dimissioni di Stephen Bannon, che per lungo tempo era stato ritenuto la vera eminenza grigia del Trumpismo. Un’escalation che ha cambiato completamente il volto del team Trump, e che  non è stata esente da risvolti comici, come il caso del direttore della Comunicazione Anthony Scaramucci, rimasto in sella per soli dieci, intensi giorni.

Ciò ha guidato la composizione della squadra di consiglieri che ha accompagnato Trump fin dentro la Casa Bianca. Infatti, se la molteplicità di opinioni è una costante di ogni amministrazione, con l’attuale Presidente è degenerata in scontro di fazioni – ognuna con i propri obiettivi e visioni del mondo quasi opposti – per il mantenimento dell’influenza nello Studio Ovale. Per schematizzare al massimo, si potrebbe dire che un primo dualismo vede da un lato i nazionalisti, sostenitori dell’”America First” isolazionista e pessimista: tema che Trump ha cavalcato in campagna elettorale, e che aveva il loro principale ispiratore in Bannon. Dall’altro lato, i globalisti, ovvero l’élitenewyorkese che si raccoglie intorno alla famiglia del Presidente e alla sua precedente carriera nel mondo degli affari, come la figlia Ivanka e il genero Jared Kushner.

All’ombra di questa contrapposizione sono germinate altre fazioni più fluide, ma non per questo meno decisive. Come quella del partito Repubblicano, costituita dai (pochi) esponenti del GOP che hanno accettato di sostenere il Presidente, come il Vicepresidente Mike Pence e Reince Priebus, comunque allontanato dallo staff. O quella dei generali, sostenitori del mantenimento dell’ordine tradizionale in politica estera, i quali hanno acquisito sempre maggiore influenza con il Segretario alla Difesa James Mattis, il nuovo Chief of Staff John Kelly e il Consigliere per la sicurezza nazionale H.R. McMaster. Passando poi per la fazione di Wall Street, rappresentata dal consulente finanziario Gary Cohn e dal Ministro del Tesoro Steve Mnuchin, a cui vanno le chiavi della politica economica del paese. Non bisogna infine dimenticare i “trumpiani DOC”, che devono la loro carriera totalmente alla fedeltà al capo e che lo affiancano con ruoli creati ad hoc: come la consulente speciale Kellyanne Conway, l’ex dipendente di lungo corso della Trump Corporation e ora responsabile per i social media Dan Scavino, e Hope Hicks, la 28enne ex modella appena promossa a direttrice della Comunicazione.

Tutte queste fazioni competono ferocemente per emergere agli occhi del presidente. Ciò pare facilitato da come Trump prende decisioni alla Casa Bianca: un modello di leadership molto informale, mutuato dai suoi anni da manager e basato poco su strutture gerarchiche definite e molto su immediatezza, prossimità e competizione. Tanto che, secondo alcune fonti, nel suo staff si sarebbe creata una corsa a chi ha accesso per ultimo al Presidente prima di una decisione, in modo tale che gli rimangano in testa le ultime parole sentite.

Eppure, nulla porta a credere che la lotta si sia placata all’interno della Casa Bianca. Dopotutto, le altre fazioni, per quanto indebolite, mantengono delle sacche di potere autonomo, capace di creare un contrappeso al dominio della famiglia e dei generali. Basti pensare al Vicepresidente Pence, o allo speechwriter e ideologo dell’alt right Stephen Miller, braccio destro di Bannon. Lo stesso Bannon, ora ritornato al suo ruolo a capo della rivista online di estrema destra Breitbart, potrebbe essere più influente fuori dalla Casa Bianca che da dentro, grazie a un presidente particolarmente sensibile all’esposizione mediatica.

Infine, si apre un’ultima possibilità: che la confusione attorno allo Studio Ovale non sia dovuta a incapacità o inesperienza, ma derivi invece da una precisa strategia dello stesso Trump. Torna utile ritornare al Trono di Spade e leggere la frase di Ditocorto, l’esperto di macchinazioni della serie: “il caos è una scala”. Per un presidente politicamente debole e controverso, soggetto a scandali e senza alleati di peso nel sistema politico della capitale, mantenere i propri collaboratori in lotta costante per il suo accesso potrebbe essere la soluzione migliore per conservare quel potere (arrampicandosi sulla scala del caos) che  sarebbe già sua prerogativa costituzionale: quello di avere l’ultima parola. In altre parole, di gestire la scacchiera.

Solo il tempo dirà se, e a quale prezzo, questa strategia avrà successo. E se alla fine sarà il Presidente che riuscirà a proiettare l’ombra più grande sul muro.

(estratto di un’analisi più ampia pubblicata su Aspenia che si può leggere integralmente qui)

Back To Top