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Vi smonto le 7 frottole su Alitalia. L’analisi di Rubino

L'analisi di Paolo Rubino, già top manager di Alitalia

 

“Keyword” è la parola cruciale, imprestata come sempre dalla lingua inglese, per indicare la pietra filosofale che trasforma in profitto del gestore la consultazione, oramai compulsiva, dei web media da parte dei lettori. La bravura degli autori è misurata oggi dall’abilità di tessere tesi di buon senso intorno alle keywords che l’intelligenza artificiale sa estrarre, con disumana efficacia, dall’oceano internet. La soddisfazione del pubblico dei lettori deriva dal riconoscere nell’ordito narrativo dell’autore il riflesso del proprio buon senso. Le grandi imprese del web hanno avuto la genialità di trasformare il “senso comune” nella merce più profittevole del XXI secolo. Chapeau!

Al di la della fascinazione tecnologica dell’industria del web e dell’universalità, per la prima volta davvero quasi raggiunta, del mercato di riferimento, non sembrano esserci, a prima vista, differenze significative con ogni altro business scaturito da geniali invenzioni, la ruota, la vela, l’acciaio, la polvere da sparo, la stampa, il motore, la telecomunicazione, il computer. Salvo forse un sospetto di incapacità di generare progresso. Le precedenti invenzioni hanno effettivamente favorito un progresso strepitoso, poiché hanno aperto le menti umane a nuove prospettive prima inimmaginabili. Poiché il web vende ai più il gratificante specchiarsi nel proprio buon senso, dal punto di vista del progresso è un catch 22. Insomma non apre la mente, ma sembra indurla alla masturbazione.

Nell’Italia contemporanea i temi caldi che attraggono i surfisti della rete a cliccare su parole, o anche intere locuzioni, nella vanitosa ricerca del riflesso del proprio buon senso non sono tantissimi. O meglio, come in ogni buon business, si può ragionevolmente assumere anche in questo caso che il primo 20% dei temi catalizzi l’attenzione dell’80% dei navigatori. Tra i temi caldi, una posizione onorevole è occupata dal vettore nazionale Alitalia. La lista che segue è un estratto degli argomenti di senso comune che, spesso rafforzati dalla miopia della politica, contribuiscono da vent’anni a far correre in circolo come un topino impazzito la compagnia di bandiera.

“Quello che si prospetta per Alitalia è l’ennesimo salvataggio in extremis, un irresponsabile e costoso pasticcio a carico dei contribuenti che si aggiungerà ai 9 miliardi di euro fin qui spesi”.

Questo è un evergreen delle locuzioni su Alitalia che resiste imperterrito all’evidenza della verità. Nei “nove miliardi di spreco”, cifra tonda in eccesso per favorire la semplicità del messaggio e locuzione keyword che ogni commentatore non manca di ricordare, si considerano tutti gli aumenti di capitale e finanziamenti fatti dall’azionista per la società di cui era proprietario dal 1975 ad oggi. E nessun commentatore sembra voler fare la fatica di scoprire che, almeno fino al 1991, parte magna di quella somma è servita al vettore per acquistare ben 184 aeroplani tra medio e lungo raggio per un valore attualizzato di circa sei miliardi di dollari. Cosa vi sia di strano e dissipatorio se la proprietà di un’azienda finanzia con il proprio capitale l’acquisizione dei ‘macchinari industriali’ necessari alla produzione, ossia aeroplani per un vettore aereo, resta un mistero. Ma sembra evidente che interrogarsi su questo non appaga il senso comune, quindi non serve il business delle opinioni riflesse.

“E’ necessaria la presenza forte e qualificata di un”socio industriale”.

Ancora un evergreen di irresistibile potenza evocativa. Che Alitalia abbia avuto fin dal lontano 1998 un partner industriale sembra interessare a nessuno. Che fino al 2004 ci sia stato un rapporto più o meno di pari dignità con tali partner. Che, da quella data in avanti, ci sia stata una genuflessa sottomissione ai partner industriali che si sono succeduti nel tempo e che, con la genuflessione, queste partnership abbiano impoverito e umiliato la compagnia sembra interessare ancor meno. Che nella natura delle cose un socio industriale persegua, a giusta ragione, lo scopo della propria industria, asservendo legittimamente a ciò le proprie partecipate, sembra un concetto sconosciuto a chiunque per quanto la storia umana ci inondi di esempi.

“Con i soldi spesi dal 2008 ad oggi si sarebbe potuto tutelare tutto il personale, accompagnandolo alla pensione o ricollocandolo nelle compagnie aeree che avrebbero preso il posto di Alitalia”.

E’ questa una lunga locuzione, un ossimoro se associata con l’altra frequente che “l’attuale sistema pensionistico italiano è insostenibile salvo una sostanziale dilazione dell’età pensionabile”. In ogni caso, esso sembra fondato sull’idea che il lavoro umano sia un lusso e, quindi, le aziende che non se lo possono permettere devono tagliare il personale. Che un’azienda di sevizi, in presa diretta con il pubblico, debba basarsi sul personale per la soddisfazione dei clienti sembra irrilevante. Che un business complesso come il trasporto aereo necessiti di competenze sofisticate ugualmente di nullo rilievo. Che la sicurezza del volo si fondi su piloti e manutentori eccellenti, una nuance non applicabile al vettore italiano. Assai curioso infine l’assunto che, chiusa Alitalia, altre compagnie avrebbero potuto prenderne il posto. Per tutti i commentatori che adottano questo pensiero evidentemente una compagnia aerea è come una maionese: se impazzita, la si getta nei rifiuti e si ricomincia daccapo.

“Tenere in vita una compagnia decotta, consociativa e predisposta a spese facili”.

Decozione, consociativismo e prodigalità sono keywords di potenza atomica soprattutto quando associate ad un soggetto pubblico. Che la prima sia una conseguenza, le altre due possibili cause è un primo problema di logica dell’argomento che evidenzia una trascuratezza per il significato delle parole. Quest’attitudine impoverisce il pensiero nazionale, tanto più se inflazionata tra coloro, gli esperti, che quel pensiero per mestiere dovrebbero orientare. In ogni caso, se c’è decozione perché mai un terzo, tanto più un soggetto industriale esperto, dovrebbe rischiare il proprio capitale? E il consociativismo è pratica di un’azienda o piuttosto, caso mai, dei suoi stakeholders? La prodigalità, infine, appare un vero dogma della fede. Eppure basterebbe un ben meschino sforzo di approfondimento per scoprire che da almeno vent’anni gli acquisti Alitalia sono stati effettuati in una logica di puro massimo ribasso, perfino e ben oltre il metro del costo/qualità. Le uniche eccezioni sono fioccate quando i partner industriali hanno venduto propri beni e servizi alla compagnia nazionale a caro prezzo, e giustamente, essendo quelle merci arricchite dal brand value del venditore (sic!). In quest’ultimo giro di walzer del vettore nazionale sono poi entrate con gran vigore nella hit parade delle keywords quelle che seguono.

Il partner Ferrovie non farà altro che “mascherare aiuti pubblici e accentuare il proprio ruolo di ammortizzatore sociale”.

Questo importante soggetto industriale ha smesso di essere ammortizzatore sociale da svariati anni e il suo numero di dipendenti, nell’ultimo ventennio, è sceso ben al di sotto della soglia dei 100.000 contandone oggi meno di 75.000. Una cura dimagrante eccezionale che le consente un look da Twiggy al confronto con la mitica SNCF francese che ha 14 dipendenti per Km di rete gestita contro i 4,5 degli italiani. Ma in ogni caso, l’accanimento mediatico contro le Ferrovie ottunde la mente dei più sul vero tema della partnership con Alitalia. L’intermodalità è forse la sfida più importante per il futuro della logistica nazionale, ma essa deve essere perseguita con le infrastrutture prima di mettere mano ai lustrini del marketing. Questo dettaglio fondamentale sembra interessare poco agli esperti, forse perché poco riflette la vanità dei surfisti dell’informazione.

“Nell’azionariato di Alitalia entra Atlantia che ha contenziosi ancora aperti proprio con lo Stato per le note vicende del ponte Morandi, per non parlare delle nuove tariffe autostradali”.

Ponte Morandi e tariffe autostradali sono keywords di valore assoluto nella vita della rete. E che un grande gruppo industriale negozi i suoi affari con lo Stato può suonare sorprendente agli opinionisti italiani, ma è la regola dell’economia nell’Occidente democratico. Il punto è che se la denuncia, diciamolo un po’ demagogica, degli accordi è facile da fare e riscuote immediata attenzione, la verifica che quegli accordi siano rispettati da tutti i contraenti è lavoro assai più duro e assai meno appagante.

“Il controllo da parte dello stesso soggetto sugli aeroporti di Roma e il vettore metterà la lente sui ricavi da tariffa aeroportuale praticati o sugli sconti da applicare al cliente Alitalia?”.

Il grande rebus imprenditoriale che, con malcelato orgoglio intellettuale, tanti commentatori amano denunciare. A nessuno viene in mente che il conflitto di interessi è intrinseco ad ogni imprenditore e che le leggi, gli organi di controllo e garanzia, la cultura sociale e la consapevolezza degli interessi generali sono il rimedio che l’Occidente democratico ha potenziato dall’epoca di Theodor Roosvelt nei selvaggi Stati Uniti alle soglie del XIX secolo.

Il catch 22 di Alitalia sembra un destino ineluttabile, magari involontario, ma letale e in ciò non diverso da quello che sembra attanagliare ogni altra realtà industriale di rilievo di questo nostro paese.

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