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Fondo Sure

Se si vuole salvare l’Europa va ripensato il Trattato di Maastricht

Il commento dell’editorialista Roberto Sommella Inutile girarci attorno, bisogna disinnescare per un po’ i parametri di Maastricht. Sembra incredibile che i leader europei abbiano rischiato di spaccare l’Unione Europea per un’emergenza migranti inesistente e non vedano quale sia il vero problema: la costante crescita delle disuguaglianze. In Europa c’è solo un modo per affrontare questo…

Inutile girarci attorno, bisogna disinnescare per un po’ i parametri di Maastricht. Sembra incredibile che i leader europei abbiano rischiato di spaccare l’Unione Europea per un’emergenza migranti inesistente e non vedano quale sia il vero problema: la costante crescita delle disuguaglianze. In Europa c’è solo un modo per affrontare questo scoglio ed è abbandonare momentaneamente il vincolo-tabù del 3% di rapporto tra deficit e pil. A dispetto della convergenza delle finanze pubbliche, cara a Berlino come a Mario Draghi e rinnovata, giustamente, dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco e dal ministro dell’Economia, Giovanni Tria in occasione della relazione annuale dell’Abi, è il momento, se si vuole salvare l’Ue di pensare a qualcosa di innovativo.

I numeri della vera emergenza sono impressionanti, difficile pensare che si possano trovare soluzioni con gli attuali meccanismi di condivisione delle politiche europee. La ricchezza mondiale di coloro che possiedono investimenti superiori a un milione di dollari (esclusa la prima casa) ha superato nel 2017 per la prima volta la soglia dei 70 mila miliardi di dollari, in aumento del 10,6% sul 2016, dollaro più dollaro meno, quanto vale l’intero pil mondiale.

L’Italia, che peraltro ha sempre rispettato i vincoli europei, a differenza di Francia, Germania e Spagna, non fa eccezione. In dieci anni la povertà è raddoppiata, ma negli ultimi dodici mesi il numero dei milionari è passato da 251.500 a 274.000 (+9%). Mentre aumentano pil (+1,6%), valori immobiliari (+2,7%) e capitalizzazione di borsa (+23%), si incrementa lo spread sociale. Solo un terzo della crescita è andato alle famiglie. E questo è accaduto un po’ ovunque nell’Ue, dove si sono invece impegnati molti soldi pubblici negli anni della crisi solo per le banche. Una ripassata fa bene. La Germania ha speso 227 miliardi, il Regno Unito 101 miliardi, la piccola Irlanda 58 miliardi, la Spagna 52 miliardi, l’Austria 33 miliardi, i Paesi Bassi 23 miliardi, l’Italia 13 miliardi. E la crescita è rimasta disomogenea, l’opinione pubblica si è sentita abbandonata e ha cominciato a odiare l’Europa dei conti.

Ben diversa la situazione dei paesi dell’Est, che non avevano e non hanno vincoli di bilancio. Il gruppo di Visegrad si è potuto permettere anche un’esplosione dei debiti pubblici nell’ultimo decennio, ma la disoccupazione in Polonia e Ungheria, è ai minimi, di fatto sparita, grazie anche a una forte deflazione dei salari che ha attratto molti capitali dall’Ovest.

Insomma, lo scudo dell’euro è diventata una gabbia (un sondaggio Sky ha indicato nel 22% gli italiani che hanno nostalgia della lira) in una zona oppressa dalla guerra dei dazi e dalla voglia di ritorno alle frontiere e in cui le istituzioni chiedono ancora riforme e sacrifici. Impossibile uscirne con le ricette ortodosse. Semi svuotate le casse pubbliche da anni di manovre salva-Italia, il nostro Paese è rimasto però stabile alla decima posizione della top ten degli Stati per numero di persone facoltose, preceduto da Usa, Giappone, Germania, Cina, Francia, Regno Unito, Svizzera, Canada e Australia. Individui più ricchi degli Stati. Un paradosso ormai inaccettabile. Un bel pezzo di quell’Europa che chiude le frontiere perché vede crescere a dismisura le ingiustizie all’interno dei suoi confini, si rifiuta anche solo di discutere del vincolo sul deficit inserito nel Patto di stabilità e crescita. Siamo sicuri che tutto si risolva con il rigore e l’isolazionismo, invece di rivedere i tetti alle finanze pubbliche che impediscono da anni politiche anti-cicliche? È il momento di porsi questa domanda in modo laico, senza approcci europeisti ideologici.

Il governo Conte, i cui piani sono ambiziosissimi, potrebbe trovarsi così già a un bivio. Rispettare i parametri che impongono il pareggio di bilancio nel 2020 o chiedere altra flessibilità. La seconda sembrerebbe l’unica opzione percorribile. I numeri di finanza pubblica in mano al ministro dell’Economia Tria, parlano chiaro. Tra clausole Iva da disinnescare (12,4 miliardi), spese indifferibili da rifinanziare (3-4 miliardi) e correzione dei conti (10-11 miliardi da contrattare) il margine a disposizione per onorare i tre punti clou del contratto di governo (Flat tax, reddito di cittadinanza e superamento della legge Fornero) sono prossimi allo zero. Bruxelles da tempo chiude un occhio. Tra il 2015 e il 2018 è già stata concessa flessibilità per 29,7 miliardi. Ma questo non è riuscito ad aumentare gli investimenti pubblici. In teoria, si potrebbe ottenere un nuovo sconto a fronte dell’incremento del pil atteso dalle riforme del governo penta-leghista, ma la strada è in salita e la concessione sa tanto di aspirina. Mettere mano ai Trattati per inserire finalmente la golden rule per gli investimenti e ottenere l’esclusione dal calcolo del deficit degli stanziamenti necessari a finanziare misure di sostegno al reddito, sarebbe la strada migliore, ma è di fatto come scalare l’Everest senza bombole. Eppure qualcosa, con l’aumento dei privilegiati e l’ampliamento delle povertà, si dovrà pur fare.

All’esecutivo italiano resta così una terza via, da avanzare ai prossimi vertici europei: sospendere momentaneamente il pareggio di bilancio in tutta l’Eurozona, con una sorta di moratoria che blocchi gli effetti del Fiscal compact, permettendo a tutti i governi di avvicinarsi al tetto massimo del 3% di disavanzo. Non cadrà il mondo e non cadranno i mercati. Le istituzioni europee dovrebbero capire che una deroga simile è molto meglio che la vittoria dei sovranisti nel maggio del 2019. Morire per Maastricht non conviene più a nessuno. Ripensarlo è il dovere di chi crede ancora nell’Unione.

Articolo pubblicato su Mf/Milano finanza

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