skip to Main Content

Di Maio

Vi racconto le contraddizioni a 5 stelle di M5S e Di Maio. I Graffi di Damato

Di Maio ha rinunciato alla carica di capo del partito M5S, annunciando di non voler “mollare” sulla strada della “rifondazione” del movimento. I Graffi di Damato

Oltre alla cravatta dal collo, in una immagine che spopola giustamente sui giornali, Luigi Di Maio si è tolto sassi e sassolini dalle scarpe e dalla bocca lasciando la guida del Movimento 5 Stelle con un discorso rivolto più agli avversari interni che a quelli esterni, vittima insomma del cosiddetto fuoco amico, come ha sottolineato in uno dei titoli di prima pagina il Corriere della Sera. E come hanno sperimentato in un passato remoto e recente leader ai quali non so francamente se al giovane e ambizioso Di Maio piacerà del tutto essere paragonato: magari sì ad Alcide De Gasperi e ad Amintore Fanfani, nella Dc della cosiddetta prima Repubblica, forse sì anche a Walter Veltroni nel Pd da pochi anni fondato da lui stesso nella cosiddetta seconda Repubblica, credo proprio di no a Matteo Renzi nel Pd della cosiddetta terza e incipiente Repubblica, costretto ad uscirne pochi mesi fa allestendo un partito tutto suo. Che vorrebbe rappresentare l’Italia viva pur con le modestissime dimensioni che gli attribuiscono i sondaggi.

Nel denunciare i tradimenti, le pugnalate, gli sgambetti e quant’altro cui ha deciso alla fine di sottrarsi dopo avere smentito i giornali amici e nemici che ne avevano preannunciato la rinuncia alla guida del partito, Di Maio non ha fatto un solo nome. Pertanto tutti sono obiettivamente sospettabili leggendo le cronache vecchie e nuove della politica pentastellata, a cominciare dal fondatore, garante e quant’altro del Movimento, cioè Beppe Grillo. Cui non a caso, del resto, è stato attribuito un certo stupore di fronte agli avvenimenti, non foss’altro per il momento scelto da Di Maio per lasciare: alla immediata vigilia del difficilissimo voto di domenica nelle regioni Calabria e soprattutto Emilia-Romagna. Dove lo sconcerto già forte dei militanti e simpatizzanti delle 5 Stelle potrebbe far peggiorare i risultati del Movimento.

Al limite, potrebbe essere sospettato di fuoco amico persino l’unico uomo di cui Di Maio ha fatto il nome per sottolinearne la “straordinarietà”, cioè il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. La cui crescita politica e mediatica, in particolare dopo la conferma a Palazzo Chigi guidando una maggioranza opposta a quella precedente, cioè sostituendo la Lega con la sinistra, è coincisa con l’esplosione dei contrasti nei gruppi parlamentari grillini. Ne stanno uscendo diversi, a cominciare dall’ex ministro dell’Istruzione Fioramonti, col proposito di costituire gruppi nuovi e autonomi per fornire maggiore appoggio proprio a Conte e al suo governo, sentendolo evidentemente minacciato anche o soprattutto da Di Maio, quanto meno scettico del carattere strategico dell’alleanza col Pd considerato dal presidente del Consiglio. Che proprio per questo si è guadagnato dal segretario di quel partito, Nicola Zingaretti, la qualifica di leader di riferimento di tutti i “progressisti” d’Italia, se bastano i confini nazionali.

Quello pronunciato da Di Maio nel tempio di Adriano a Roma per guastare in fondo la festa ai cosiddetti facilitatori, appena selezionati per aiutarlo nella guida del suo movimento, può ben essere considerato il discorso dell’ossimoro, cioè delle contraddizioni. Egli ha rinunciato alla carica di capo del partito, o come altro si deve chiamare, annunciando al tempo stesso di non voler “mollare” sulla strada della “rifondazione” del movimento. Che il giornale ad esso più vicino, o ispiratore, cioè Il Fatto Quotidiano, ha messo in camera di rianimazione titolando in prima pagina che “o cambia o muore”.

Di Maio ha chiesto per il governo di cui continua a fare parte nella postazione della Farnesina tutto il tempo rimanente e ordinario della legislatura, sino al 2023, per fargli esprimere per intero le sue potenzialità, ma ha teorizzato una conflittualità permanente con gli alleati non certamente compatibile con quella durata. In particolare, egli ha detto che i grillini, per quanto malmessi, hanno l’obiettivo irrinunciabile di rimettere ordine nel disordine -scusate il bisticcio delle parole – procurato al Paese dai partiti precedentemente al governo. Dai quali non si può certamente escludere il principale degli attuali alleati delle 5 Stelle, cioè il Pd, così come non si poteva escludere nella maggioranza precedente la Lega, più volte al governo con Silvio Berlusconi dal 1994 in poi. O no?

Per chiudere, è quanto meno curiosa la condizione di un ministro degli Esteri impegnato internazionalmente in un’azione difficile di difesa della pace, o di contenimento della guerra, in aree vicine all’Italia, e per essa decisive, ma al tempo stesso costretto dal fuoco amico a ridimensionarsi come leader politico. E’ una condizione più da satira che da analisi. Non a caso sono in festa i vignettisti, il più crudele dei quali – Nico Pillinini sulla Gazzetta del Mezzogiorno –  lo ha riportato nello stadio di Napoli a vendere patatine.

Back To Top