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Perché il super trumpiano Papadopoulos punta il dito sulla Link di Scotti per il caso Mifsud e annuncia un libro-scoop

L'approfondimento di Marco Orioles sulla vicenda Mifsud-Link University di Scotti con alcuni tweet puntuti di Papadopoulos

Le cronache dagli Stati Uniti ci dicono che le indagini del procuratore speciale Robert Mueller sul Russiagate si sono concluse, e che già la prossima settimana il nuovo ministro della Giustizia, Bill Barr, lo annuncerà alla stampa. A breve, tutto il mondo saprà se nell’inattesa vittoria di Donald Trump alle presidenziali del 2016 ci sia stata la “manina” di Mosca. Ovvero se il magnate newyorchese, o quanto meno gli uomini del suo entourage, siano stati collusi con il Cremlino, presunto regista di una sofisticata quanto spregiudicata operazione di influenza concepita e attuata con l’obiettivo di danneggiare, alle elezioni di tre anni fa, il candidato democratico Hillary Clinton e di favorire invece quel rivale repubblicano che aveva promesso di rammendare le relazioni con la Russia.

In attesa di capire cosa abbia partorito la maxi inchiesta di Mueller, emergono dagli States alcune informazioni che promettono di sovrapporsi a quelle che scaturiranno dalle carte del procuratore speciale. Negli Stati Uniti molti tengono attentamente monitorato il profilo Twitter dell’uomo che, tre anni fa, ha dato il “la” all’inchiesta di Mueller.

Stiamo parlando di George Papadopoulos, ossia di colui che, prima di cadere in disgrazia, ricoprì il ruolo di consigliere di politica estera del candidato Trump durante la rocambolesca stagione delle primarie e delle successive battute della trionfante campagna elettorale. Un giovane rampante che finì presto nei radar dell’Fbi a causa delle sue liaisons dangereuses con ambienti russi e, soprattutto, delle famose mail di Hillary Clinton che l’intelligence militare di Mosca, il Gru, trafugò e che, prima di essere rese di dominio pubblico, furono messe a disposizione di Papadopoulos – attraverso un misterioso tramite con forti legami con il nostro paese –  con l’evidente intento di fornirgli materiale imbarazzante capace di compromettere la candidata rivale. Una brutta vicenda, che a Papadopoulos è costata l’incriminazione – la prima, nell’inchiesta di Mueller – e una condanna a quattordici giorni di carcere per aver mentito all’Fbi su quegli intrallazzi.

Ebbene, da qualche giorno l’account Twitter di Papadopoulos emana strani segnali di fumo. Sono, a quanto è dato di capire, le avvisaglie di una possibile detonazione parallela a quella che si verificherà quando conosceremo i risultati dell’indagine di Mueller. Papadopoulos sembra avere qualcosa di grosso tra le mani, ed è in procinto di rivelarlo in un libro che uscirà il prossimo 26 marzo.

Il volume si intitola “Deep State Target”, e viene presentato come un “resoconto di prima mano che dimostra il tentato sabotaggio della campagna presidenziale di Donald Trump da parte di servizi di intelligence americani e internazionali”. Uno “Spygate”, insomma, di cui Papadopoulos sarebbe stato “il primo bersaglio”. Un grande complotto ordito dal “Deep State” – la famosa “palude” di Washington in cui sguazzano spie, politici senza scrupoli e funzionari sleali – allo scopo di danneggiare non Hillary Clinton, come avrebbe cercato di dimostrare l’inchiesta di Mueller (che l’autore definisce un “inganno”, Hoax), bensì proprio Trump.

Fin qui, nulla che possa farci ribaltare sulla sedia. Sappiamo che sono molti gli americani che nutrono riserve sul Russiagate o che lo considerano, sulla scia di The Donald, una “caccia alla streghe”. Nella patria delle fake news e dei “fatti alternativi”, non può sorprendere che ci siano persone che propongono teorie più o meno strampalate. Il fatto è che, come dicevamo, da qualche tempo Papadopoulos lancia messaggi ambigui via Twitter. Messaggi che chiamano in causa il nostro paese, da lui considerato addirittura “l’epicentro della cospirazione”.

 

 

Riferimenti inquietanti, che ci obbligheranno a prendere in attenta considerazione questo libro. In attesa della pubblicazione, sarà utile mettere insieme gli elementi che conosciamo di una storia che si sviluppa, anche, nel Belpaese. Una storia che è già stata abbondantemente raccontata dai giornali ma di cui non sono ancora noti, a quanto pare, tutti i dettagli. Una storia che ruota intorno alla figura di un misterioso professore maltese, Joseph Mifsud, che ha nel frattempo fatto perdere le sue tracce. E all’ateneo in cui tale personaggio ha insegnato, la Link Campus University fondata dall’ex ministro Dc Vincenzo Scotti che ha conquistato la ribalta per essere diventata il vivaio del grillismo di governo. Una “scuola di spie”, la definisce Papadopoulos nel tweet in cui reclamizza il suo libro, alimentando il sospetto, su cui anche Start Magazine si soffermò a suo tempo, che nei corridoi dell’università si muovano segreti inconfessabili.

Ma partiamo da lui: Joseph Mifsud. Chi è, e che ruolo ricopre, nel Russiagate? Questo docente sessantenne nativo di Malta, laureatosi all’Università di Padova e (secondo il medaglione pubblicato sul sito “The Washington Diplomat”) protagonista, in qualità di collaboratore del ministro degli Esteri maltese Michael Frendo, del negoziato che ha portato l’isola mediterranea nell’Unione Europea, figura nell’inchiesta di Mueller come il “professore” che Papadopoulos ha incontrato più volte, tra il marzo e l’aprile del 2016, a Roma e Londra.

Il giovane consigliere di Trump ha ottimi motivi per prestare attenzione a un uomo che vanta entrature importanti nei palazzi russi. Mifsud infatti è figura familiare a Mosca, dove si reca periodicamente per partecipare a convegni e conferenze. In quanto membro del Valdai Club, la “Davos” russa, il professore ha relazioni con la gente che conta, quella che elabora e attua la politica estera russa.

Papadopoulos drizza le orecchie: quando è entrato a far parte del team elettorale di Trump, ha capito che il suo boss intende, se eletto, riavvicinare Washington a Mosca. Il contatto con un uomo che ha accesso alle stanze del potere russo può tornargli senz’altro utile. Tanto più che, nel pour parler che i due hanno a Roma il 14 marzo 2016, il professore ricambia le attenzioni.

Tra i due, nasce un’intesa. Che li spinge a vedersi di nuovo, questa volta a Londra, il 24 marzo. Il professore si fa accompagnare da una cittadina russa, Olga Polonskaya, presentata a Papadopoulos come la nipote di Vladimir Putin. Non lo è, ma è il segnale che Papadopoulos attende: Mifsud è l’uomo di cui ha bisogno.

Ma è in un nuovo incontro, avvenuto in un hotel di Londra il 26 aprile, che il professore offre a Papadopoulos un asso. Nel verbale redatto da Mueller, leggiamo che Mifsud asserisce di essere “tornato da un viaggio a Mosca dove ha incontrato esponenti di alto livello del governo russo”, che gli hanno fatto sapere di avere “roba sporca” (“dirt”) su Hillary, sotto la forma di “migliaia di email”. Boom.

A Papadopoulos non sembra vero: il suo amico gli stava mettendo a disposizione del materiale prezioso, che avrebbe alzato il suo profilo nel team Trump, e schiuso possibilmente le porte a chissà quale incarico nel futuro governo guidato dal tycoon. Il consigliere, da quel momento, lavora indefessamente ad un progetto: organizzare un incontro tra Putin e il candidato Trump, per forgiare un’alleanza sugellata da quelle mail che la Russia offriva al futuro artefice del disgelo Washington-Mosca. Sono documentati, tra le altre cose, susseguenti contatti tra Papadopoulos e il Ministero degli Esteri russo.

L’incontro tra Putin e il futuro capo della Casa Bianca propiziato da quei contatti non si verificherà mai: pare che Jeff Sessions, il senatore dell’Alabama che è al fianco del candidato repubblicano e che sarà ricompensato con l’incarico di ministro della Giustizia, abbia fatto morire l’idea spericolata del consigliere. Idea che, abbinata ad una grossolana imprudenza, lo mette invece nei guai.

Papadopoulos infatti commette un errore imperdonabile: si confida con un alto diplomatico australiano, Alexander Downer, che incontra a maggio 2016 nella Kensington Wine Room di Londra. Messo a parte del segreto delle mail compromettenti di Clinton, Downer decide di informare l’intelligence del suo paese. Che allerta le autorità americane. Le quali, resesi contro della natura scottante della vicenda, decidono di avviare un’inchiesta, quella che si sarebbe evoluta nel Russiagate.

Quando il caso scoppia, tutto il mondo si interroga: chi è mai questo “professore” che, secondo l’indagine di Mueller, avrebbe offerto al consigliere di Trump materiale esplosivo su Hillary? Mifsud diventa improvvisamente uno degli uomini più ricercati al mondo. Tutti vogliono parlare con lui e conoscere i dettagli di questa strana storia. Sguinzagliata sulle sue tracce, “Repubblica” lo scova nel suo studio alla Link. Quando il reporter gli chiede conto delle rivelazioni arrivate da oltreoceano, Mifsud risponde: “Sciocchezze. (…) quello che ha raccontato Papadopoulos non è vero. (…) Escludo assolutamente di aver parlato di segreti riguardanti Hillary. Giuro su mia figlia. (…) Tutto quello che ho fatto è favorire rapporti tra fonti non ufficiali, e tra fonti ufficiali e non, per risolvere una crisi. Si fa in tutto il mondo. Ho messo in contatto think- tank con think- tank ”

Poi, Mifsud scompare. Non lo si trova più nel suo appartamento di Roma, né nel campus. Il Comitato Nazionale del Democratic Party, che lo ha citato in giudizio nel caso dell’hackeraggio delle mail, dice che “è scomparso o forse morto”. La Corte dei Conti di Palermo, che lo condanna per ingiustificati compensi ricevuti dal Consorzio universitario della provincia di Agrigento di cui è stato presidente, è costretto a scrivere nella sentenza “Residenza sconosciuta”.  Scompaiono anche tutte le pagine su di lui nei siti web delle delle organizzazioni, Link Campus inclusa, a cui era affiliato.

Ma la memoria della rete non perdona. Affiorano così le tracce di una serie di convegni ai quali Mifsud ha partecipato nell’ateneo romano. Iniziative in cui il professore maltese compare assieme ai colleghi docenti come Paola Giannettakis, cui era stata assegnata la casella degli Interni nella squadra di governo grillina presentata da Luigi Di Maio nella campagna elettorale dell’anno scorso, relatrice con Misfud al «primo forum interdisciplinare sul terrorismo» del settembre 2015 (vi partecipò anche l’eurodeputato Dem, Gianni Pittella, amico di Mifsud dai tempi della London Academy of Diplomacy, dove Pittella è stato visiting professor). O l’attuale titolare della Difesa Elisabetta Trenta, che alla Link era vicedirettrice del master in intelligence e sicurezza e la cui strada si era già incrociata con quella di Mifsud al polo universitario di Agrigento, dove Trenta in passato fu chiamata a collaborare.

La presenza di Mifsud nell’organigramma della Link mette in imbarazzo il suo fondatore, Vincenzo Scotti. Che, in un’intervista concessa al sito “Lettera 43”, minimizza, dichiarando che “è venuto qui, doveva cominciare a tenere dei corsi in quanto professore full time di una università straniera, ma non ha più iniziato. Punto e basta”. “Il professor Mifsud” – afferma Scotti in un’altra intervista – “ha collaborato con noi quando eravamo filiazione dell’Università di Stato di Malta in Italia, indicato proprio da Malta (…). Per l’anno accademico 2017-2018 ha avuto poi un incarico come professore straniero in Link Campus University in quanto full professor della prestigiosa Stirling University, nel rispetto delle norme in materia. Quando Stirling lo ha dichiarato decaduto – a Novembre 2017 – presso il proprio ateneo, l’incarico da noi ricoperto, in qualità di visiting professor, è venuto meno, anche qui nel rispetto delle leggi italiane”.

Ma il danno ormai è fatto. Il nome di Mifsud fa il giro del mondo associato a quello della Link Campus. E i giornali sono scatenati. Luciano Capone del “Foglio” si reca personalmente in ateneo e chiede spiegazioni, sentendosi rispondere dall’ufficio stampa che “il rapporto professionale di Joseph Mifsud con la Link Campus University è iniziato nel 2017 come professore straniero in Italia”. Con l’esplodere del Russiagate, Mifsud sarebbe quindi “decaduto” nel mese di novembre dello stesso anno. Alle domande insistenti del giornalista, l’università è però costretta per ad ammettere che Mifsud ha collaborato “allo sviluppo dei rapporti internazionali di Link Campus University” sin da quando era una filiazione dell’università maltese.

Il rapporto con Mifsud sembra dunque non essere stato estemporaneo. Al contrario, scrive Capone, il professore maltese “ha avuto un ruolo di primo piano nella tessitura di relazioni, nella costruzione di partnership internazionali e nell’arrivo di finanziatori della Link University, che si sono concretizzate in” danarosi accordi con entità straniere, inclusa una russa.

“Mifsud – riporta ancora Capone – proprio per gli ottimi rapporti con i russi, ha avuto un ruolo fondamentale (…) nell’accordo della piccola Link Campus con la Lomonosov Moscow State University”, considerata “la più importante università statale della Russia”. A firmare l’intesa a Mosca, l’8 ottobre 2016, ci sono tre persone: Scotti, l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini e Mifsud. In seguito a questa partnership la Link ha programmato un master in “Globalisation, governance and international understanding” in cui, oltre a docenti italiani, figurano diversi professori russi. Anche la pagina con l’elenco dei docenti del master è stata rimossa dal sito della Link.

Questa storia, come abbiamo detto, è già stata raccontata a suo tempo in lungo e in largo. Ora, però, il libro di Papadopoulos promette nuove rivelazioni. Sulla “spy school” di Vincenzo Scotti. E su quel misterioso docente maltese scomparso nel nulla di cui l’ateneo romano ha cancellato ogni traccia, insieme ai fili che lo collegano alla Russia di Putin. In attesa dell’uscita nelle librerie, è forse il caso di seguire il profilo Twitter di Papadopoulos.

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