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Trump

Tutti i progetti di Trump sulla Banca Mondiale (dopo aver silurato Jim Yong Kim)

Che cosa è successo ai vertici della Banca Mondiale? E che cosa farà ora Donald Trump? Il Punto di Marco Orioles

 

Le improvvise, ma non inattese, dimissioni di Jim Yong Kim da capo della Banca Mondiale aprono una nuova opportunità per l’agenda di Donald Trump, la cui ostilità nei confronti delle strutture multilaterali è ormai proverbiale, ma anche un possibile scontro tra Washington e gli altri Paesi membri dell’istituzione finanziaria globale, che potrebbero sfidare quel patto non scritto che ha visto, fin dalla fondazione della World Bank con i patti di Bretton Woods del 1944, gli Stati Uniti nominare il vertice.

L’uscita di scena di Kim con tre anni e mezzo di anticipo rispetto alla naturale scadenza del mandato, fissata al 30 gennaio 2022, non è, come si diceva, una notizia imprevista. Sarebbe invece, come notano in queste ore molti commentatori, la conseguenza di un’intesa tra Kim e l’amministrazione Trump, che in cambio dell’aumento del budget della Banca e di alcune riforme, può ora selezionare un uomo più sensibile alle proprie priorità.

Priorità che non coincidevano affatto con quelle di Kim. 59 anni, nato a Seul ma cresciuto nell’Iowa, medico specializzato in malattie infettive con una successiva formazione di antropologo, il capo uscente della Banca Mondiale era stato scelto nel 2012 da Barack Obama e dal suo primo segretario di Stato Hillary Clinton – con un mandato successivamente rinnovato nel 2017 per ulteriori cinque anni – per perseguire obiettivi che sono agli antipodi rispetto ai temi che caratterizzano l’agenda della Casa Bianca trumpiana. Basti pensare allo stanziamento monstre, deciso l’anno scorso per il successivo quinquennio, di duecento miliardi di dollari per combattere il cambiamento climatico, su cui lo scetticismo di Trump e sodali è ben noto. O all’impegno della Banca sul fronte dell’emergenza rifugiati dal Medio Oriente, altro tema che non ha certo trovato il favore dell’inquilino della Casa Bianca. Per non parlare della decisione di stoppare i finanziamenti ai progetti energetici basati sul carbone, risorsa di cui il governo Usa ha deciso il rilancio.

Ma è sulla Cina che lo scontro tra amministrazione Trump e Kim si era fatto acuto. La critica di Pennsylvania Avenue e del Dicastero del Tesoro guidato da Steven Mnuchin si era appuntata sui prestiti che la World Bank – il cui mandato formale è combattere, con la propria leva finanziaria, la povertà estrema nel mondo – si ostina a concedere anche a paesi non proprio in miseria come, appunto, la Cina. Il braccio di ferro ingaggiato dall’amministrazione con l’istituzione guidata da Kim aveva visto, nello scorso aprile, una vittoria della prima, seppur sotto la forma di un onorevole compromesso: il governo Usa accettava l’aumento di capitale di 13 miliardi della Banca in cambio della diminuzione del 30% dei prestiti concessi a Pechino, scesi l’anno scorso a 1.8 miliardi di dollari. L’accordo fu perseguito personalmente dal sottosegretario al Tesoro David Malpass, e comprendeva anche un abbassamento dei costi di gestione della struttura, con un taglio del 30% degli stipendi del personale.

È anche per l’arrendevolezza di Kim che The Donald non ha mai attaccato frontalmente né lui né la Banca. Al contrario, il tycoon lo ha pubblicamente definito “un amico” e “un ragazzo straordinario”. “Avrei potuto nominarlo io”, chiosò il capo della Casa Bianca. Ma la simpatia di Trump per il banchiere ha anche ragioni scevre da ogni ideologismo: l’anno scorso, la Banca ha finanziato con un miliardo di dollari un progetto di Ivanka, la figlia e consigliere del presidente Usa, per concedere prestiti all’imprenditoria femminile. Di fronte all’accusa di conflitto di interessi, il presidente americano reagì stizzito: “Non è affatto un progetto insignificante”, dichiarò al G20 2017 di Amburgo. “Questo sarà un forte stimolo alla crescita economica del futuro (…) e allo stesso tempo porterà maggiore uguaglianza di genere”.

Kim ha annunciato che le sue dimissioni saranno operative a partire dal 1 febbraio, quando la CEO della Banca, la bulgara Kristalina Georgieva, assumerà le funzioni di presidente ad interim. Da questo momento, parte la battaglia per la nomina del successore, che potrebbe non essere una passeggiata per Donald Trump. Se infatti è tradizione che il presidente della Banca sia designato da Washington (così come il direttore dell’istituzione gemella, il Fondo Monetario Internazionale, spetta ad un candidato europeo), con il board dei governatori che si limita a ratificare la decisione americana, da tempo questa regola è apertamente sfidata dai paesi emergenti, che desiderano avere maggior voce in capitolo sulla gestione di una struttura le cui decisioni impattano direttamente sul Sud del mondo.

Già la nomina di Kim, d’altra parte, dovette reggere la sfida avanzata dalla Nigeria e dalla Colombia, che presentarono i loro candidati alternativi. Quest’anno, i paesi in via di sviluppo avranno poi una ragione in più per ostacolare le manovre di Washington: l’ostilità dichiarata della Casa Bianca per il multilateralismo, di cui la World Bank è un ingranaggio fondamentale, oltre che per politiche dal più o meno vago sapore mondialista, quale la battaglia per promuovere l’energia pulita.

La nomina del successore di Kim va dunque seguita attentamente, se non altro per capire se Donald Trump potrà disporre di un’ulteriore sede in cui perseguire i propri obiettivi, contrasto dello sviluppo cinese incluso.

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