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Tutti gli schizzi nefasti delle sanzioni Usa sull’economia dell’Iran

I dati insomma parlano chiaro: le sanzioni americane hanno colpito duramente l'economia iraniana. Se ciò porterà, come avvenuto negli anni della crisi nucleare, ad un ammorbidimento del regime e a una sua disponibilità a venire a patti con Washington, lo sapremo molto presto. L'articolo di Marco Orioles

 

Le sanzioni Usa contro l’Iran mordono. Lo dimostrano inequivocabilmente i dati raccolti e illustrati dalla BBC in un servizio pubblicato ieri: sono evidenti le conseguenze – pesanti – della politica della Casa Bianca, decisasi a prendere il toro iraniano per le corna.

L’analisi fatta dalla BBC parte dal luglio del 2015, quando viene siglato il “Joint Comprehensive Plan of Action” (Jcpoa), l’accordo nucleare negoziato dall’amministrazione di Barack Obama con gli ayatollah.

Firmato, oltre che da Washington e Teheran, dagli altri quattro membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) più la Germania e l’Unione Europea, il Jcpoa portò alla cancellazione delle sanzioni internazionali che avevano messo in ginocchio l’Iran e molta parte ebbero nel convincere i dirigenti della Repubblica Islamica ad accettare delle limitazioni al proprio programma nucleare.

Il grafico della BBC (fig. 1) mostra l’andamento dell’economia iraniana. Si vede chiaramente come, dopo l’entrata in vigore del Jcpoa, il Pil abbia registrato un poderoso balzo in avanti, con una crescita nel 2016 pari al 12,3%. Buona parte di questa performance, nota la BBC, fu dovuta al settore energetico: liberato dalle sanzioni, il petrolio iraniano tornava nel mercato dove gli acquirenti non mancavano di certo.

Fig. 1: tasso di crescita dell’economia iraniana, 2005-2019

L’anno successivo, tuttavia, il Pil è cresciuto di soli 3,7 punti percentuali. Un dato, osserva la BBC, legato alla difficoltà di tutti gli altri comparti dell’economia iraniana ad agganciare la ripresa, ma anche all’avvento al potere di Donald Trump, che sin dalla vittoriosa campagna elettorale dell’anno precedente aveva palesato l’intenzione di ripudiare il Jcpoa, da lui definito il “peggior accordo di sempre”.

C’è voluto più di un anno, comunque, perché il governo guidato dal tycoon passasse dalle parole ai fatti. Risale al maggio 2018 la decisione di ritirare gli Usa dall’accordo nucleare e di reintrodurre le sanzioni, entrate in vigore nel successivo novembre.

Il risultato è stato immediato e tangibile: nel 2018, secondo le stime del Fmi, l’economia iraniana ha registrato una contrazione del 3,9%. Niente a che vedere, tuttavia, con quel che potrebbe succedere quest’anno, quando – secondo le previsioni del Fmi – il Pil potrebbe diminuire del 6%. È l’effetto, nota la BBC, del venir meno delle esenzioni dalle sanzioni sul petrolio iraniano concesso da Washington per sei mesi a otto paesi (Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Turchia, Grecia e Italia).

La strategia della Casa Bianca si concentra proprio sull’export energetico iraniano, che si vorrebbe portare a zero. I suoi effetti si possono vedere nel prossimo grafico (fig. 2), che mostra l’andamento della produzione petrolifera.

Fig. 2: produzione petrolifera Iran marzo 2011-marzo 2019

Nel 2018, l’Iran produceva 3,8 milioni di barili al giorno, secondo i dati Opec. Di questi, 2,3 andavano all’estero. Ma nel marzo 2019, la produzione era scesa sotto la soglia dei 3 milioni di barili, mentre l’export – secondo i dati di SVB Energy International – si riduceva a 1,1 milioni di barili.

Il prossimo grafico (fig. 3) spiega bene le ragioni di questo tonfo: gli otto paesi cui gli Usa avevano concesso le esenzioni hanno ridotto drasticamente gli acquisti di petrolio iraniano. I due principali importatori, Cina e India, li hanno tagliati rispettivamente del 39% e del 47%, mentre per tre paesi (Taiwan, Grecia e Italia) il flusso si è azzerato. Il risultato, per le casse iraniane, è stato fatale: secondo il calcolo di un funzionario Usa, i mancati introiti per Teheran sono stati pari a 10 miliardi di dollari.

Fig. 3: importazioni petrolio iraniano degli otto paesi beneficiari di esenzioni dalle sanzioni Usa, maggio/ottobre 2018-novembre 2018/marzo 2019

Cambiando angolazione e prendendo in esame l’andamento della valuta, il risultato non cambia: le sanzioni Usa stanno mettendo a dura prova il governo, costretto a fare i conti con un forte deprezzamento del rial e con il conseguente malumore dei cittadini.

Da quando sono state reintrodotte le sanzioni, il rial ha perso più del 60% rispetto al dollaro. E se il tasso di cambio ufficiale è fissato a 42 mila rial per dollaro, la verità è che la maggior parte degli iraniani acquista dollari a una quotazione assai più alta, che secondo Bonbast.com (fig. 4) raggiunge oggi la ragguardevole soglia di 143 mila rial per dollaro (dopo aver toccato nel settembre 2018 quota 190 mila).

Fig. 4: tasso non ufficiale di cambio rial/dollaro

Un altro indicatore, collegato ai precedenti, del pessimo stato di salute dell’economia iraniana è l’inflazione (fig, 5). Era stata messa sotto controllo nel 2017, quando gravitava sul livello del 9%. Già l’anno successivo tuttavia registrava un’esplosione, toccando secondo le stime del Fmi il 31%, E il peggio secondo il Fmi non è ancora arrivato, se si confermeranno le sue previsioni del 37%.

Fig, 5: tasso di inflazione in Iran 2001-2019

Insieme al deprezzamento del rial, l’inflazione è il fattore di crisi che più di altri viene avvertito direttamente dalla popolazione: secondo i dati del Centro Statistico dell’Iran, gli iraniani oggi acquistano la carne con un sovrapprezzo del 57%, latte, formaggio e uova al 37% di più e la verdura al 47% di più.

I dati insomma parlano chiaro: le sanzioni americane hanno colpito duramente l’economia iraniana. Se ciò porterà, come avvenuto negli anni della crisi nucleare, ad un ammorbidimento del regime e a una sua disponibilità a venire a patti con Washington, lo sapremo molto presto.

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