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Ecco perché i conti non tornano nella tragedia del Moby Prince

L'articolo di Luca Longo

Indietro tutta a 28 anni fa.  Il Muro di Berlino è già per terra, l’Unione Sovietica traballa. Al Quirinale Francesco Cossiga. Giovanni Spadolini e Nilde Jotti guidano le Camere. Palazzo Chigi ospita per la terza volta Giulio Andreotti che guida un dream team: Martelli, Scotti, De Michelis, Cirino Pomicino, Russo Jervolino. E poi ancora Rognoni, Bianco, Prandini, Maccanico,… I cordoni della borsa del Tesoro sono saldamente tenuti da Guido Carli. Carlo Azeglio Ciampi è alla Banca d’Italia.

Mercoledì 10 aprile 1991. Ore 22:25:20. Tutti stanno guardando altri due dream teams: Juventus e Barcellona si scontrano allo stadio Campo Nou per la semifinale di andata della Coppa delle Coppe. Il gol di Casiraghi è stato cancellato da una doppietta di Stoichkov. Si mette male per le zebre in trasferta, ma finirà pure peggio.

IN QUEL MOMENTO

In quel momento, Goicoechea segna la terza rete per il Barcellona superando Tacconi e sigillando la partita in favore dei padroni di casa.

In quel momento, alle 22:03, il traghetto Moby Prince della NavArMa – in servizio di linea fra Livorno e Olbia – 65 membri dell’equipaggio e 76 passeggeri, 31 auto e camion, molla gli ormeggi e comincia a manovrare nella rada del porto di Livorno. Destinazione Olbia. Non vi arriverà mai.

Il pilota di porto, comandante Federico Sgherri, in quel momento ha il controllo della Moby Prince; abbandona la banchina Calata Carrara n.55 e conduce la manovra di uscita. Alle 22:12 sfila davanti alla Vegliaia – la diga a protezione dell’imboccatura Sud – saluta via radio l’avvisatore marittimo e porta la nave verso il mare aperto. Terminato il suo compito, cede i comandi a Ugo Chessa, il comandante della Moby Prince, saluta tutto il personale in plancia e sale sulla pilotina in accosto al traghetto insieme al marinaio Renzo Cavallini, per rientrare a terra. Non lo sa, ma si è messo in salvo.

Appena la pilotina si separa dalla nave, Sgherri accende la radio sul Canale 16 VHF, il canale internazionale di chiamata e soccorso in mare. Sente così la regolare chiamata della Moby Prince alla Capitaneria di Porto di Livorno: “Compamare Livorno, Compamare Livorno, Moby Prince, ore 22.14.33, ho doppiato la Vigliaia e sto uscendo in mare. Rotta vera 195”. Tutto regolare: è la solita rotta per Olbia.

In quel momento, nel bacino del porto, tutto prosegue regolarmente: la Atlantic Horizon ormeggia e la Car Express entra in rada. L’unica nave a salpare a quell’ora è la Moby Prince. La nave successiva programmata per la partenza è il traghetto merci Adige, che verrà fermato prima di poter mollare gli ormeggi.

In quel momento, la petroliera Agip Abruzzo è ancorata alla fonda nella parte sud della rada di Livorno, a sole 2,7 miglia dalla Vigliaia. Trasporta 82.000 tonnellate di petrolio greggio di tipo “iranian light” proveniente dal terminal egiziano di Sidi Kerir. E’ lì da 24 ore aspettando il suo turno per scaricare i serbatoi.

NEL MOMENTO SUCCESSIVO

Nel momento successivo la Moby Prince entra in collisione con la Agip Abruzzo sfondandone il serbatoio numero 7 contenente circa 2700 tonnellate di petrolio.

Ore 22:25:27: l’ufficiale radio della Moby Prince interrompe sul Canale 16: “Mayday Mayday Mayday, Moby Prince Moby Prince Moby Prince, Mayday Mayday Mayday, Moby Prince! Siamo in collisione, siamo entrati in collisione e prendiamo fuoco! Siamo entrati in collisione e prendiamo fuoco! Mayday Mayday Mayday, Moby Prince, siamo in collisione ci serve aiuto!”

Gli idrocarburi del serbatoio 7 investono la prua del traghetto e si riversano in mare. L’iranian light è un petrolio leggerissimo e molto volatile: “praticamente benzina” lo definirà il comandante Superina. Le frazioni più leggere si mescolano subito all’aria. Le scintille prodotte dallo sfregamento delle lamiere innescano i vapori. Una palla di fuoco. Si incendia la sezione posteriore della Agip Abruzzo e la Moby Prince si trasforma lentamente in un inferno di fuoco. Muoiono tutte le 140 persone a bordo del traghetto. Tutte tranne uno: il giovane mozzo Alessio Betrand di Napoli che – incolume – abbandonerà la nave in fiamme un’ora e mezzo dopo.

Una tragedia che non è mai stata chiarita del tutto. Leggendo le testimonianze, gli atti processuali, la sentenza di primo grado del 1998, la sentenza d’appello del 1999 e la relazione finale della commissione parlamentare di inchiesta del 2018, i conti non tornano.

Cosa è successo realmente nella rada di Livorno? Come è possibile che il comandante e l’equipaggio della Moby Prince non abbiano visto una petroliera lunga 268 metri, larga 50 ed alta come un palazzo di cinque piani? Possibile che tutti quanti fossero incollati al televisore ed alle radioline per la partita? E c’era fitta nebbia, oppure no?

NELLA NEBBIA

Nella sentenza della terza sezione del Tribunale di Firenze al Processo di Appello del 5 febbraio 1999 ovunque si parla di nebbia. Le deposizioni parlano di: “sfilazze di nebbia e fili di nebbia” (pagina 5), “il banco aveva la forma di una nuvola”, “sembrava fumo tanto da far dubitare si trattasse di nebbia”, “certamente quella notte la nebbia era strana” (tutte a pagina 64), e così via. Ma leggendo ci si imbatte in una frase: “sulla petroliera vi era un banco di nebbia che lasciava pienamente visibili le altre navi alla fonda.” Una strana nebbia, che lasciava fili in tutta la rada ma che aveva scelto di concentrarsi soltanto sulla petroliera.

Romeo Ricci, avvisatore marittimo, di turno quella sera, invece dichiara: “in quel momento c’era una visibilità discreta. Da qui – il suo punto di osservazione sulla torre all’imboccatura del Porto Mediceo all’uscita del Bacino Firenze – riuscivo a vedere sia la Agip Abruzzo che tutte le altre navi in rada”. Federico Sgherri – il pilota di porto che avvia la Moby Prince verso il suo ultimo viaggio – testimonia: “la visibilità delle navi alla fonda era normale e la Abruzzo, coi suoi fanali, era illuminata”. Massimo Bernace – marinaio dell’Accademia Navale di Livorno – monta la guardia sul molo dell’Accademia, proprio di fronte alla rada: “ricordo di aver osservato la petroliera e sono certo che non vi era assolutamente nebbia.”.

Anche i primi soccorritori, che escono in mare subito dopo la collisione, non notano nebbia. Cesare gentile, capitano della Finanza: “C’era una chiarezza impressionante, mare calmissimo e senza nebbia”. Domenico Màttera, comandante del rimorchiatore Tito Neri VII: “All’uscita del porto la visibilità era buona, poi all’improvviso è scesa quasi a zero a causa di quello che, presumo, fosse fumo. Infatti, non era fresco come la nebbia. E la gola bruciava”.

Nebbia o fumo? Il petrolio greggio, infatti, è una miscela di idrocarburi di varie dimensioni mescolata a poche altre sostanze. Quando viene innescato sprigiona un denso fumo nero prodotto dalle particelle che vengono vaporizzate dal calore dell’incendio senza bruciare completamente. La visibilità era impedita da fili di nebbia freddi e biancastri o da un fumo denso e nero che brucia la gola? E questo si è sviluppato dopo … oppure prima dell’impatto?

La sentenza sembra risolvere il dilemma a modo suo: “la nebbia, quella sera, aveva aspetto simile al fumo.” … “Lo confermano Melis, Cannavina, Termes, Olivieri, Rol”.

Però, andando a rileggere le singole deposizioni, troviamo una realtà diversa. Paolo Termes, ufficiale dell’Accademia Navale, depone invece: “Non ho mai avuto la sensazione che vi fosse nebbia”. Roger Olivieri, altro ufficiale dell’Accademia: “Non ho assolutamente visto nebbia in mare quella sera”.

NEL CIELO

L’assenza di nebbia viene confermata da Enzo Bertolini, comandante del volo Alitalia Roma-Pisa AZ 1102, che segnala alla torre di controllo della città di destinazione la presenza sotto di lui – proprio nelle acque davanti a Livorno – di “un punto di fuoco molto considerevole e di altri intorno più piccoli”.

Non è l’unico velivolo presente nella zona in quel momento. Il perito della Procura Ing. Salvatore Fabbricotti analizzerà il tracciato radar della stazione di Poggio Lecceta e scoprirà la presenza di un mezzo che procede a velocità elevata: 38 nodi. Un elicottero che sfiora le onde oppure un’imbarcazione veloce lanciata ad altissima velocità. Non si troverà mai traccia di questo mezzo.

La teste Marcella Bini e la figlia Giulia Campi alle 22:25 del 10 aprile 1991 scorgono bagliori in mare dalla finestra di casa loro. Dopo, vedono un elicottero volare sul tratto di mare nel quale è avvenuta la collisione per poi dirigersi verso nord. Anni dopo, quando infuriano le polemiche sui soccorsi e le autorità affermano che è stato impossibile far intervenire mezzi aerei, la Bini si presenta dal PM. In udienza, il 26 gennaio 1996, conferma la presenza dell’elicottero e spiega che questo la rassicura: non lancia l’allarme perché pensa che “i soccorsi sono già arrivati”.

Anche il teste Massimo Vernace – militare di guardia all’Accademia Navale – depone il 27 aprile 1993 di aver visto un elicottero intorno alle ore 23.

Ulteriore conferma arriva dall’avvisatore marittimo Romeo Ricci: ne è certo perché la sua postazione sulla torre è molto leggera: quando passa un elicottero avverte forti vibrazioni, inconfondibili.

Aeronautica militare, Marina e Vigili del fuoco negano che sia decollato un loro elicottero la sera dell’11 aprile. Viene anche spiegato che in ogni caso esistono tempi tecnici per la mobilitazione del personale, l’allestimento del velivolo e il viaggio: l’orario in cui viene visto il misterioso elicottero non è compatibile con queste procedure.

La teste Bini indica nell’intervallo 22:40-22:45 il momento in cui vede l’elicottero e l’avvisatore marittimo è preciso nell’indicare l’ora in cui parte l’allarme: 22:31. L’elicottero misterioso sorvola la zona della tragedia tra i 9 e i 14 minuti successivi all’allarme via radio. Non è decollato dopo l’allarme, ma si trova già lì.

Molti elementi fanno pensare a un elicottero militare con i trasponder spenti. A Camp Darby ci sono elicotteri, ma gli americani negano che esista un sistema radar. Per cui non hanno visto cosa è accaduto in rada e non possono seguire i loro velivoli.

Se questo è il sistema di difesa antiaerea di una delle più grandi basi NATO…

IN MARE

Ma quella sera in rada a Livorno si trova anche la Agip Napoli, petroliera gemella della Agip Abruzzo. Sul nastro che registra il contatto radio fra Vito Cannavina – il comandante della Napoli – e la Capitaneria di Porto di Livorno pochissimi minuti dopo l’impatto mortale rimane inciso: “Evidentemente non avete ancora capito la gravità della situazione? Perché io ci sono a un miglio e mezzo e sto vedendo tutto quello che succede lì, eh? La nave è tutta a fuoco!”. Purtroppo l’incendio sulla Abruzzo copre la Moby Prince già in fiamme alla vista del comandante della Napoli, ma questi comprende benissimo il dramma che si consuma sotto i suoi occhi a poco meno di 3 chilometri di distanza. Però la sentenza d’appello iscrive anche lui fra i sostenitori della nebbia.

L’impatto della Moby Prince è avvenuto da tre minuti. Renato Superina, comandante della Agip Abruzzo, alle 22:30:10 chiede aiuto sul Canale 16 VHF. Risponde la capitaneria di Porto di Viareggio. “Incendio a bordo! Incendio a bordo! Qui Agip Abruzzo”, “Dove vi trovate voi che chiamate incendio a bordo? Qui Compamare Viareggio, cambio” “In rada, in rada a Livorno. Livorno ci vede. Ci vede con gli occhi!” “Ricevuto, cambio.” “Agip Abruzzo, incendio a bordo. Basta che uscite fuori e vedete le fiamme!”.

Ma c’è una prova che elimina definitivamente la nebbia, in senso letterale: la mostra il TG1 delle 20:00 del 13 aprile: l’inviato Mammoliti fa vedere un filmato registrato solo 5 minuti dopo l’impatto dagli armatori Nello e Antonio D’Alesio. Dalla terrazza della loro casa sul lungomare di Livorno filmano l’incendio ed il riflesso delle fiamme sul mare. Il servizio termina con: “Intanto una cosa è ben chiara: non c’era nebbia al momento dell’incidente”.

Ma se non c’era nebbia, perché le indagini e poi la sentenza cercano la nebbia a tutti i costi?

Un perito dichiara: “La nebbia serve a spiegare la collisione. Attorno alla nebbia ruota tutto, ma non regge assolutamente questa spiegazione. Poi, tutte le navi sono dotate di radar a bordo, e il Moby Prince ne aveva ben tre installati a bordo. Uno era certamente acceso e perfettamente funzionante”. Anche se i periti del PM arrivano a una conclusione curiosa: “c’era la nebbia e dalla plancia del traghetto non si seguiva il monitor del radar.”. Ma, a parte il mozzo, i membri dell’equipaggio della Moby Prince non possono testimoniare: sono tutti morti.

A BORDO

Se la colpa non è della nebbia, può essersi trattato di distrazione? Colpa del comandante Ugo Chessa, quindi, che in una rada affollatissima ha fatto uscire la Moby Prince senza dare neanche un’occhiata allo schermo del radar?  Ma in plancia oltre a lui c’erano almeno il timoniere, il secondo e il terzo ufficiale – quest’ultimo addetto proprio al radar.

Nelle udienze, tutti quelli che lo conoscono sostengono la serietà del comandante della Moby Prince. D’Ambrosio: “Ugo Chessa, era universalmente riconosciuto come il miglior ufficiale della flotta Onorato.”. Langella: “Era considerato il miglior comandante come serietà e severità.”…“Era il più professionista. Il più serio. Il più severo. Il più preparato”.

La prima sentenza trova il suo colpevole: il comandante. “Con verosimiglianza si può imputare al comandante del Moby Prince l’imprudenza della persona esperta, non l’inesperienza. Ma è stato certamente ingannato dalla forma del tutto inusuale in cui si presentava il fenomeno nebbioso che, come più volte è stato ricordato, interessava la petroliera ma lasciava discretamente visibile il resto della rada. Questa circostanza può spiegare anche il mancato ricorso al radar, che con tutta probabilità era acceso e in funzione. Al radar si ricorreva principalmente in caso di nebbia. Ma quella sera la nebbia era difficilmente avvertibile.”

Quindi i giudici dicono che Chessa era un esperto e per questo era imprudente e la nebbia c’era – e quindi si doveva ripiegare sul radar – ma questa si addensava proprio soltanto sulla petroliera – e quindi non c’era bisogno di usarlo. Va notato che anche a quell’epoca tutti i radar non si limitavano a mostrare il traffico sullo schermo ma attivavano un assordante segnale di allarme se individuavano un ostacolo in possibile rotta di collisione. Comunque la Moby Prince è rimasta incenerita e poi è affondata prima di essere ripescata: non sapremo mai quali e quanti radar erano accesi, spenti o in avaria.

Ma se vogliamo capirci qualcosa dobbiamo tornare a quella sera. E ripartire daccapo.

A CAMP DARBY

Lo facciamo partendo da una lettera intestata “Dipartimento della Difesa. Comando Traffico Militare, Terminal Battaglione Italia” acquisita agli atti del processo. Vi si legge: “15 marzo 1991. A chi di competenza. Si notifica che le sottoindicate navi trasportano materiale di proprietà del governo degli Stati Uniti d’America destinato alla base USA-NATO di Camp Darby, Tombolo, Pisa. Le navi sono sotto il diretto controllo del Dipartimento di Difesa USA, militarizzate, pertanto esenti da qualsiasi tassa o visita di controllo a bordo. Cape Breton, USA; Efdim Junior, Grecia; Gallant II, Panama. Distinti saluti”.

Tutte e tre queste navi sono state usate per il trasporto di materiale bellico nella prima guerra del Golfo dichiarata definitivamente conclusa solo 40 giorni prima.

Il brogliaccio dell’avvisatore marittimo di Livorno fotografa la situazione nell’intera rada e conferma la presenza all’ancora delle tre navi Cape Breton, Efdim Junior e Gallant II. Ma, secondo lo stesso brogliaccio, in rada quella stessa sera si trovano altre quattro navi legate ai trasporti USA per la base di Camp Darby: la Cape Syros, Cape Flattery, Cape Farewell e Margaret Weix.

L’inchiesta parlamentare conclusa nel 2018 scoprirà altre due navi: la Port de Lyon e la Esperus. Tutte navi militarizzate americane, tutte alla fonda davanti al porto di Livorno. Tutte lì quella stessa notte.

Anzi, sempre quella notte, un testimone sostiene di avere visto almeno una di queste impegnata in operazioni di scarico protetta dalle tenebre, operazione vietata per evidenti motivi di sicurezza. Il Capitano della Guardia di Finanza Cesare Gentile nell’ udienza del 15 maggio 1996 dichiara: “C’era una giornata chiarissima e ho costatato la posizione delle varie navi in rada: ho visto al nord una barca che imbarcava delle armi”. E poi ancora: “A nord c’era una nave grossa e illuminata che stava facendo il carico delle armi”.

Camp Darby è una delle più grandi basi militari NATO in Italia, 8 milioni di metri quadrati, sorge alle porte di Livorno e non c’è quindi nulla di strano se navi militarizzate americane si trovano in rada a Livorno. Quello che, invece, è strano è che nessuno prima della testimonianza del Capitano della Finanza aveva mai messo agli atti che era in corso almeno una operazione di carico e scarico notturno di armi ed esplosivi. La base, infatti, è uno dei principali avamposti americani nel Mediterraneo ed è il principale deposito logistico del Southern European Task Force (SETAF). Per questo, armi ed esplosivi residuati della prima guerra del Golfo tornavano dall’Iraq e venivano scaricati proprio accanto alla rotta dei traghetti in entrata e in uscita dal porto.

Il Capitano Gentile dichiara in udienza che tutto questo lo aveva riferito nel proprio rapporto protocollato proprio l’11 aprile 1991; ma che nessuno durante l’inchiesta lo ha mai interrogato o chiamato a deporre.

Inoltre, Romeo Ricci – l’avvisatore marittimo in servizio in cima alla torre di avvistamento e quindi in una posizione perfetta per seguire il traffico nel mare antistante – dichiara di aver visto “una vampata, come un vulcano in eruzione, una cosa indescrivibile, nella posizione corrispondente più o meno all’Agip Abruzzo e alla Cape Breton”. Quindi almeno una delle navi militarizzate americane che stavano aspettando di scaricare (o, secondo alcuni testimoni, stavano scaricando in piena notte) carichi di esplosivi a Camp Darby era proprio accanto alla petroliera speronata dalla Moby Prince.

Ma quella notte in rada non c’erano solo traghetti, petroliere e navi sotto controllo militare americano. Scorrendo l’elenco si trova anche la 21 Oktobar II. Apparentemente si tratta solo di un peschereccio, una nave frigorifero ammiraglia di una piccola flotta di pescherecci donati dalla cooperazione italiana alla Somalia per aiutarla nel commercio e nell’esportazione di pesce. Nulla di strano.

In teoria, la 21 Oktobar II incrocia in acque somale pescando e raccogliendo il pesce dalle altre navi della sua flotta per poi stivarlo nei frigoriferi e portarlo a Gaeta, ma nel porto di Gaeta la nave si vede raramente. E cercando gli spostamenti del 21 Oktobar II nel registro dei Lloyds, risulta evidente che i porti toccati dalla nave somala non c’entrano molto con la pesca e col commercio di pesce: Libia, Libano, Irlanda, Iran. E spesso la 21 Oktobar II si ferma per mesi interi proprio nel porto di Livorno, accanto a Camp Darby. Ufficialmente per riparazioni.

A MOGADISCIO

Ed ora lasciamo un attimo il porto di Livorno e facciamo un salto in avanti.

Nel marzo del 1994, tre anni dopo, in piena guerra somala, la giornalista Ilaria Alpi intervista Abdullahi Moussa Bogor – detto il sultano di Bosaso – e viene a sapere che questi ha appena sequestrato una delle navi della flotta della 21 Oktobar II. Col suo operatore Miran Hrovatin va a curiosare nelle attività di questa flottiglia sospettando un traffico di armi sotto il controllo dei servizi segreti occidentali. Vuole fare luce su quanto le ha riferito Bogor: sugli stretti rapporti intrattenuti da alcuni funzionari italiani con il governo di Siad Barre, verso la fine degli anni ottanta. La giornalista riesce anche a salire a bordo di alcuni dei pescherecci della flottiglia, ormeggiati presso la banchina del porto di Bosaso. Sospetta che siano utilizzati per i traffici illeciti di rifiuti e di armi. Poche ore dopo, Ilaria avvisa la redazione del TG3 che ha trovato e filmato materiale eccezionale e torna con Miran a Mogadiscio per trasmettere il materiale raccolto e per continuare l’inchiesta, che però non porta a termine: entrambi vengono assassinati in un agguato il 20 marzo 1994. Non si trova traccia dei nastri video.

Dopo il duplice omicidio, la 21 Oktobar II entra a pieno titolo nelle inchieste della magistratura e della Commissione parlamentare d‘inchiesta sulla cooperazione, ma pochi hanno notato che tre anni prima, quando era ufficialmente solo un innocuo ed anonimo peschereccio dotato di ampie celle frigorifere, si trovava nel porto di Livorno proprio la notte della strage, ufficialmente solo per un’altra delle numerose riparazioni cui è stata sottoposta.

Ma torniamo a quella notte e troviamo testimonianze che riferiscono di un’altra nave: una bettolina, che accusano di aver tagliato la rotta al Moby portando quest’ultimo a schiantarsi sulla petroliera.

Si dice che la bettolina era uscita dal porto dopo aver fatto rifornimento di carburante. Strano, visto l’orario, e visto che le operazioni di rifornimento si effettuano, sempre per motivi di sicurezza, solo nelle ore diurne.

Ancora più strano che alcuni identifichino nella bettolina proprio… la 21 Oktobar II. Che in teoria era ormeggiata a un molo non operativo in attesa di riparazioni. Però, altri testimoni sono certi di aver visto che quella sera il molo era vuoto. Lo strano peschereccio non ha passato agli ormeggi la notte del disastro.

Perché mai una nave in attesa di riparazioni ha bisogno di fare rifornimento di carburante, perché lo fa di notte. e perché poi esce in mare?

IN ROTTA (O FUORI ROTTA)?

Sono le 22:14 e la Moby Prince sfila davanti all’imboccatura del porto venendo registrata dall’avvisatore marittimo. Imbocca una rotta attraverso un cono di divieto di ancoraggio che si trova proprio davanti all’uscita del porto, per poi dirigersi verso la Sardegna.

Deve stare attenta al gruppo di navi militarizzate americane e alle due petroliere Agip Napoli e Agip Abruzzo, ancorate più a sud, oltre il divieto di ormeggio.

Dove si trovava esattamente la Agip Abruzzo? La sentenza stabilisce che si trovava a 43°29,60’ Nord e 10°15,90’ Est. Ma questa è stata rilevata solo il 12 aprile dalla nave militare italiana Libra. Sì, proprio la stessa al centro del drammatico naufragio dell’11 ottobre 2013 in cui perirono 260 profughi nella zona di ricerca e soccorso (SAR) maltese. Ma quella è un’altra storia.

Perché viene presa la posizione solo due giorni dopo? L’ingegnere di macchina Marco Pompilio fa mettere a verbale che subito dopo l’impatto ha avuto ordine di attivare il motore principale. Il comandante gli ha chiesto se la nave era pronta a muovere, ed avendone ricevuto conferma ha ordinato motore avanti per dieci minuti, poi un fermo macchine e poi di nuovo un motore avanti. Quindi la Agip Abruzzo si è spostata dopo l’impatto e non ha senso misurarne la posizione due giorni dopo. E perché quest’ultima posizione viene identificata nella sentenza come quella in cui si trovava la petroliera al momento dell’impatto?

Ma la posizione della nave non è un mistero, la dice il comandante Renato Superina al momento della collisione e viene registrata via radio. Sopra le sirene si sente distintamente la voce del comandante che scandisce: “45° a sud della Vigliaia. E’ la direzione esatta, fate presto, io sono impegnato.” Questa posizione sulla carta nautica corrisponde a 43°29′.8 Nord e 10°15′.3 Est. In questo caso la Agip Abruzzo si trova per errore dentro il cono di divieto di ancoraggio all’uscita del porto. Un divieto motivato dalla presenza di cavi e tubi sottomarini che potevano essere danneggiati dalle ancore.

La nave è lunga 276 metri, quindi va presa in considerazione anche l’orientazione. Il comandante Superina trasmette per radio: “Stiamo suonando, abbiamo suonato, solo che abbiamo la prua a Sud quindi difficilmente sentite”. Si riferisce alle sirene di allarme, che sono orientate verso prua perché progettate per avvisare le navi di fronte a sé di un rischio di collisione. Se la petroliera è rivolta a Sud, queste sirene trasmettono l’allarme verso il mare aperto dalla parte opposta al porto.

L’orientazione della petroliera è confermata sia dalle registrazioni metereologiche locali che dagli stessi testimoni. Ad esempio Giancarlo Faiella – ufficiale della Capitaneria di Porto di Livorno comandante della CP 232 che prese a bordo l’unico sopravvissuto – ha dichiarato in Commissione che il banco di nebbia o di fumo “si spostava da mare verso terra grazie a un vento che soffiava da Sud Ovest”.

Questo vento ha fatto ruotare la petroliera all’ancora fino a farle puntare la prua a Sud SudOvest in direzione del vento stesso.

È un fatto che la Moby Prince colpisce la Abruzzo sul lato destro. Con un angolo di collisione di circa 70° rispetto alla prua della petroliera. Quest’ultima, orientata dal vento proveniente dal quadrante SudOvest, si trova con la fiancata colpita in direzione NordOvest. Perciò al momento dell’urto la Moby Prince stava andando a tutta birra (18 nodi, come confermato dalle perizie) in direzione Est SudEst. Quindi immediatamente prima del disastro aveva virato bruscamente a sinistra invertendo quasi completamente la rotta a tutta velocità.

Perché la Moby Prince, invece di puntare su Olbia con rotta 195 (come dichiarato per radio dal comandante), stava andando nella direzione sbagliata? Si era trovata in rotta di collisione con qualche ostacolo e stava cercando di evitarlo virando ma centrando in pieno la petroliera – che avrebbe tranquillamente evitato se avesse mantenuto la rotta? O stava rientrando precipitosamente in porto per qualche motivo urgente?

Si veda l’immagine che illustra la posizione della petroliera e l’angolo di collisione col traghetto. Si trova a pagina 17 della relazione della Commissione Parlamentare.

IN INGLESE

Alle 22.20:10 sul Canale 16 si sente un frammento: “The passenger ship, the passenger ship”. Può essere stata una segnalazione di rischio di collisione lanciata da una non identificata nave americana “Alla nave passeggeri, alla nave passeggeri”. L’unica nave passeggeri in zona in quel momento?

Poco dopo, sulla stessa frequenza la stessa voce in italiano dice: 22:25:19 “chi è quella nave?”. Dopo altri 8 secondi, la Moby Prince si schianterà sulla petroliera.

Alle 22.49:35, circa 24 minuti dopo l’impatto, viene registrata la seconda e ultima comunicazione in inglese. Una voce diversa dalla precedente: “This is Theresa, this is Theresa for the Ship One in Livorno anchorage, I’m moving out, I’m moving out!”.

IN INCOGNITO

Non esiste nessuna nave Teresa o Theresa nella zona. Il comandante ha ritenuto opportuno usare un nome in codice sia per sé che per il proprio interlocutore -“Nave Uno”- e comunicargli che stava abbandonando la zona in tutta fretta.

Resta da spiegare perché i periti del tribunale e della commissione non si siano mai preoccupati di analizzare a fondo le registrazioni per chiarire chi fosse Theresa.

Lo studio di ingegneria forense Gabriele Bardazza di Milano, al quale si sono affidati Angelo e Luchino Chessa – figli di Ugo, comandante del Moby Prince – ha effettuato un lavoro di ottimizzazione del suono su quelle registrazioni ed è riuscito a dare un nome alla voce: si tratta del comandante greco della nave militarizzata statunitense Gallant II, il capitano Theodossiou. Era in rada per scaricare alla base americana di Camp Darby armi ed esplosivi provenienti dalla Guerra del Golfo. E se l’è filata di nascosto anziché collaborare alle operazioni di salvataggio.

 

(1.continua; la seconda parte sarà pubblicata domani)

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