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Due o tre cose sui suicidi giovanili e sulle tesi

L’analisi di Marco Ferrazzoli, giornalista e saggista Non è scontato che un fatto drammatico come il suicidio di un giovane susciti la forte attenzione mediatica che è stata dedicata a Giada, la studentessa napoletana che si è tolta la vita il giorno della presunta discussione di una tesi che non avrebbe potuto sostenere, poiché non…

Non è scontato che un fatto drammatico come il suicidio di un giovane susciti la forte attenzione mediatica che è stata dedicata a Giada, la studentessa napoletana che si è tolta la vita il giorno della presunta discussione di una tesi che non avrebbe potuto sostenere, poiché non aveva neppure dato tutti gli esami. Di suicidi di universitari ne capitano, purtroppo, ma altre volte sono stati relegati nelle cronache locali. Stavolta invece la vicenda ha catalizzato da giorni l’attenzione dei mass media, che prima hanno dato la notizia e poi l’hanno commentata: ora siamo alla consueta fase dei commenti sui commenti, nella quale peraltro queste righe si inseriscono.

Il primo dato da ribadire è che i ragazzi, e persino i bambini, a volte si uccidono. Non c’è molto da aggiungere, se non consigliare qualche fonte sull’argomento come ‘La tentazione estrema. Gli adolescenti e il suicidio’ di Xavier Pommereau (Pratiche), ‘Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente’ di Marzio Barbagli (Il Mulino) e ‘Suicidio’ di Edouard Levé (Bompiani), il libro più struggente poiché l’autore, dopo aver scritto di un amico che si era tolto la vita, ne seguì l’esempio. Va precisato che rispetto alle relativamente poche persone che decidono di compiere questo gesto estremo, molte di più lo pensano, lo immaginano, soffrono cioè di pensieri suicidi: una situazione simile a quella delle vertigini, che non sono propriamente dovute al terrore del vuoto, ma a quello dell’attrazione che il vuoto esercita. Si guarda alla propria morte, cioè, con un misto di fascino e timore. A volte accade sin da piccolissimi, ci si porta dietro questo pensiero senza dargli concretezza tutta la vita, accarezzandolo con frequenza diversa, talvolta in forma ossessiva.
Molto più frequente di quanto giunga alle cronache è il caso di studenti che fingono di proseguire gli studi per poi confessare di non aver sostenuto tutti gli esami, a volte senza averne dato quasi nessuno, di essersi bloccati a un certo punto o arrestati a quello iniziale. La difficoltà si può esprimere al momento della tesi, che si trasforma in un ultimo passo impossibile da compiere, spesso però il mentitore patologico non ha neppure passato gli esami e attribuisce allo step finale uno stress che in realtà porta dietro da anni. La tesi diventa il detonatore di una patologia, a volte porta la persona al disadattamento o addirittura alla dissociazione, anche se – di nuovo – il diretto interessato potrebbe fornire delle ricostruzioni ad usum delphini.

Naturalmente il suicidio resta un atto psicopatologico complesso, estremo, con infinite concause ed elementi scatenanti possibili, finalità e messaggi diversi. Ma indubbiamente la tesi è un rito di passaggio, richiede dunque uno scatto, un supplemento di energia e può far emergere un deficit. La laurea sancisce un cambiamento di status, tanto più in Italia che è purtroppo penultima nell’Ue per 30-34enni laureati (dati provvisori Eurostat 2017) con il 26,5%, appena sopra i romeni (26,3%, ma con un raddoppio in 10 anni) e contro una media che sfiora il 40%.
In più lo studente, fino a quel momento, raramente ha dovuto superare prove di particolare impegno, concentrate in un singolo momento: per esempio, potrebbe non aver subito lutti improvvisi, passato la visita e poi il servizio di leva, avuto storie sentimentali impegnative, affrontato colloqui di lavoro, condotto pratica sportiva di un certo impegno… Può cioè giungere alla tesi, soprattutto triennale, con una biografia sostanzialmente tardoadolescenziale, senza un’esperienza diretta competitiva (in competizione con se stesso, più ancora che con gli altri).

Infine, molto spesso, lo studente non ha neppure gli strumenti tecnici e culturali basilari per affrontare il lavoro di tesi, non ha mai effettuato una ricerca impegnativa, discriminato le fonti, articolato e strutturato un testo, creato un indice e un archivio. Lo stress può dunque aumentare e su questo, indubbiamente, l’università denuncia alcune insufficienze: i consultori universitari dovrebbero essere potenziati, laboratori e corsi propedeutici sarebbero senz’altro utili, all’inizio del percorso universitario e anche successivamente, man mano che ci si avvicina alla conclusione. In genere, salvo casi più problematici fortunatamente rari (quanto ovviamente quelli di eccellenza), i ragazzi viaggiano in una mediocrità non proprio aurea ma neppure drammatica, galleggiano sul loro lavoro finale per farsi traghettare al titolo di dottore. E poter finalmente indossare quelle orribili coroncine di finto alloro che vanno tanto di moda.

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