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Mifsud Fbi

Tutte le strade del Russiagate-Fbigate portano a Roma? I casi Mifsud-Scotti e Occhionero

Russiagate o Fbigate? In attesa di chiarimenti, si infittiscono misteri, intrecci italo-americani e tartufismi sui casi Mifsud (e il ruolo della Link University di Scotti) e Occhionero.

L’indagine del procuratore speciale Mueller si è conclusa senza nuove incriminazioni e senza prove di collusione, ma non è stata ancora scritta la parola fine sul Russiagate. Il caso si trasforma, diventa FBIgate, come avevamo anticipato un anno fa su Atlantico. L’attenzione si sposta sull’opaca condotta dell’agenzia, sul sospetto Watergate di Obama.

“Spionaggio c’è stato”, ha affermato l’Attorney General William Barr al Congresso, aggiungendo che ora è suo dovere capire se ci sia stato abuso di potere da parte delle agenzie federali, se abbiano agito nel rispetto di norme, regole e paletti. Per questo occorre andare a “revisionare origini e condotta” dell’indagine sulla Campagna Trump. Il presidente sembra intenzionato ad andare fino in fondo per capire quando e come è nata quella che ha fin dall’inizio chiamato una “caccia alle streghe”, e chi c’è dietro. “Hanno spiato la mia campagna (non dimenticheremo mai)”, ha twittato. Non c’è dubbio che l’amministrazione Obama abbia spiato la campagna del candidato di opposizione. Ora, bisogna chiarire se c’era una valida ragione per farlo, o se si è trattato di una iniziativa politicamente motivata.

Ma c’è di più: oltre al sospetto che l’FBI abbia tramato contro il candidato e poi presidente Trump, stanno emergendo sempre più nitide le impronte di manine straniere. No, non russe, ma di alleati Usa. E, come vedremo, è a Roma dove la trama del Russiagate potrebbe aver avuto origine, o quanto meno sviluppi decisivi. Nunes ha già depositato “criminal referrals” al Dipartimento di Giustizia che potrebbero riguardare anche soggetti stranieri e il loro ruolo nelle origini dell’indagine. In questi giorni è a Roma una delegazione di congressmen Usa guidata dal presidente della Commissione Giustizia del Senato, e importante senatore vicino a Trump, Lindsey Graham. Ieri una riunione alla Farnesina con il ministro degli esteri Moavero Milanesi. Libia, Cina, Russia, Venezuela, i temi certamente al centro dei colloqui, ma chissà che non si sia parlato anche delle indagini sulle origini del Russiagate.

L’FBI, è il sospetto, si sarebbe prestata, giocando di sponda con personaggi legati alla Campagna Clinton, a fabbricare o avvalorare le evidenze di contatti tra la Campagna Trump e i russi, attirando gli sprovveduti consiglieri con la “mela del peccato”, il materiale compromettente sull’avversaria hackerato dai server del Comitato nazionale democratico. Tutto ciò doveva servire a screditare il candidato Trump prima dell’8 novembre e come “polizza di assicurazione” nel caso fosse stato eletto, per sabotare la sua presidenza. Ma l’FBI, è un’altra ipotesi, potrebbe anche essersi fatta trarre in inganno per il forte pregiudizio anti-Trump dei suoi vertici e degli agenti coinvolti, i quali avrebbero deciso di dare credito, aprendo indagini e cercando riscontri tramite propri informatori, alle informazioni ricevute da asset di intelligence alleate, che avrebbero propinato loro proprio ciò che avrebbero voluto sentirsi dire, e cioè che c’erano elementi di collusione.

La figura del professore maltese Joseph Mifsud è centrale, perché è sulla base dei suoi incontri con uno dei consiglieri (per poche settimane) della Campagna Trump, George Papadopoulos, che il 31 luglio 2016 l’FBI apre l’indagine formale di controintelligence denominata “Crossfire Hurricane”. Centrale si rivelerà anche il dossier Steele, elemento decisivo usato dall’FBI per ottenere, il 21 ottobre 2016, l’autorizzazione a sorvegliare in base alle norme FISA un altro consigliere, Carter Page, e tramite lui la Campagna Trump. Come vedremo, sia Mifsud che Steele sono passati per Roma.

Uscito quasi indenne dall’inchiesta Mueller (14 giorni di carcere per aver dichiarato il falso all’FBI), Papadopoulos ha di recente pubblicato un libro, “Deep State Target”, in cui racconta il suo coinvolgimento e definisce l’Italia “l’epicentro della cospirazione”. “Il Russiagate – dichiara in un’intervista a La Stampa – è un complotto ordito per rovesciare il presidente Trump, e l’Italia ha contribuito ad organizzarlo. Io sospetto che i servizi di intelligence di Roma abbiano avuto un ruolo, a partire dal loro rapporto con Joseph Mifsud, che si nasconde nel vostro Paese”. Come racconta sempre a La Stampa, è a Roma, il 14 marzo 2016, che incontra per la prima volta Mifsud – all’epoca di base a Londra e direttore della London Academy of Diplomacy, ma anche docente all’università Link Campus.

I due si incontrano quattro volte in tutto tra il marzo e l’aprile di quell’anno, a Roma e a Londra. Mifsud è di casa al Valdai Club, la Davos russa, e Papadopoulos, sapendo dell’intenzione di Trump di ricucire con Putin, si convince che i suoi contatti possano aiutarlo a organizzare un incontro tra i due. O meglio, viene aiutato a crederci. Agganciato GP a Roma, il professore arriva al secondo incontro, il 24 marzo a Londra, accompagnato da una attraente ragazza russa, Olga Polonskaya, presentata come la nipote di Putin (non lo è). Papadopoulos è sempre più convinto di aver trovato l’uomo giusto. E il 26 aprile, sempre a Londra, Mifsud gli confida di aver incontrato a Mosca “esponenti di alto livello del governo russo” che gli hanno fatto sapere di avere “roba sporca” (“dirt”) sulla Clinton: migliaia delle sue email hackerate.

Dunque, Misfud sarebbe un testimone chiave del Russiagate, peccato che scompaia nel nulla poco dopo aver raggiunto la “fama” grazie a un articolo del Washington Post, che il 30 ottobre 2017 rivela per la prima volta il suo nome. Due giorni dopo, in un’intervista a la Repubblica, dal suo studio alla Link, nega di aver mai parlato di segreti riguardanti Hillary (“sciocchezze”) e di conoscere uomini dell’apparato di governo russo. Sostiene di essersi limitato a “favorire rapporti” tra esperti, i suoi contatti sono solo accademici, si definisce “di sinistra”, persino clintoniano (e figura ancora oggi come funzionario dell’Autorità protezione dati dell’Ue, indicato dall’EBA, l’Autorità bancaria europea). Poi svanisce nel nulla ed è tuttora irrintracciabile.

Strano anche che nessuno – né l’FBI, né altre agenzie americane o europee – si comporti come se Mifsud fosse davvero un agente russo. Nessuno ha cercato di arrestarlo, né messo in allerta gli alleati, nonostante i danni che potrebbe aver arrecato grazie ai suoi rapporti con politici di primo piano, istituzioni e agenzie di sicurezza occidentali – rapporti continuati come se nulla fosse anche dopo l’arresto e la “confessione” di Papadopoulos. Circa una settimana dopo averlo interrogato, l’FBI ha sentito anche il professore, che si trovava tranquillamente a Washington per una conferenza del Dipartimento di Stato. Ma non fu arrestato né incriminato da Mueller.

È una figura ben nota nei circoli accademici, politici, diplomatici e di intelligence occidentali. Teneva corsi a funzionari di polizia e dei servizi, soprattutto inglesi e italiani. Significativo il suo rapporto di lunga data con la diplomatica britannica Claire Smith, membro della Joint Intelligence Committee del Regno Unito. In Italia, dopo il suo coinvolgimento nel Russiagate, lo definisce “un caro amico” Gianni Pittella, ex capogruppo dei socialisti al Parlamento europeo, esponente di punta del Pd, fervente clintoniano e anche lui di casa alla Link Campus, dove da anni ex funzionari e analisti NSA e CIA insegnano. Dal 2010 anche l’FBI forma studenti nell’università romana fondata dall’ex ministro dell’interno Vincenzo Scotti.

Una sparizione misteriosa e perfettamente organizzata quella di Mifsud, che pare impossibile senza coperture professionali. Papadopoulos è convinto che sia tenuto nascosto in Italia, che fosse un asset dei servizi italiani e/o inglesi che interagiva con l’FBI, a cui era stato affidato il compito di adescarlo, dargli false informazioni sulle email hackerate ai Democratici nella speranza che le girasse alla Campagna Trump, per costruire un falso scenario di collusione: l’offerta di un “aiutino” russo per vincere le elezioni. Se è così, ha in parte funzionato. La rivelazione di Mifsud a Papadopoulos sulle email ha fornito all’FBI il pretesto per lanciare la “full investigation” sulla Campagna Trump. “Stiamo parlando del 2016, quando Renzi era il premier in Italia. Mifsud era vicino alla sinistra, e Pittella lo aveva anche invitato ad una cena con Hillary durante la campagna presidenziale”, racconta Papadopoulos a La Stampa.

Insomma, ce n’è abbastanza per porre alle autorità italiane qualche domanda su Mifsud.

Ma c’è un altro caso che potrebbe collocare le origini del Russiagate in Italia, a Roma. È il caso “EyePyramid”, dal nome attribuito dagli investigatori al malware con il quale Giulio e Francesca Maria Occhionero avrebbero hackerato migliaia di account email e pc per spiare in pratica tutto il mondo politico ed economico italiano, e carpirne le informazioni. Tra gli account presi di mira, ricorderete, quelli di politici, istituzioni, ministeri, società ed enti pubblici. Tra le vittime di primo piano degli attacchi, riusciti o tentati, spiccano l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, il senatore Mario Monti, il presidente della Bce Mario Draghi, il cardinale Ravasi. Nel luglio 2018, i due sono stati condannati in primo grado per accesso abusivo a sistemi informatici (nessuno sviluppo ancora per quanto riguarda il procedimento parallelo per il più grave reato di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato), ma continuano a proclamarsi innocenti e, anzi, denunciano di essere vittime di un disegno precostituito. Tanto da aver sporto denuncia alla Procura della Repubblica di Perugia e scritto al Congresso Usa e all’FBI. In effetti, contraddizioni e coincidenze sospette non mancano nella vicenda.

A cominciare da quella strana domanda che Maurizio Mazzella, amico di Giulio accusato di favoreggiamento, ha raccontato di essersi sentito rivolgere durante una perquisizione la mattina del 9 gennaio 2017, lo stesso giorno dell’arresto degli Occhionero, dagli agenti del CNAIPIC (Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche) della Polizia Postale: “Chi è il vostro contatto nella Campagna Trump?”. Domanda a cui quel giorno non fece nemmeno caso, ma che nei mesi successivi, alla luce degli sviluppi del Russiagate, gli tornò in mente, insieme all’interesse mostrato allora dagli agenti per le attività e i rapporti di Giulio negli Stati Uniti.

Nel 2018, tornato in libertà dopo oltre un anno di custodia cautelare in carcere, in una lettera alle commissioni del Congresso Usa che si occupano del Russiagate, all’FBI, e all’ambasciata Usa in Italia, nonché in un esposto alla Procura di Perugia, Occhionero denuncia il tentativo di intrusione nei server della sua società, Westlands Securities, situati negli Stati Uniti, effettuato durante la perquisizione del 5 ottobre 2016, davanti ai suoi occhi, dagli agenti del CNAIPIC. Di fatto, sostiene, la violazione dello spazio cybernetico americano. Ma denuncia anche che da successivi controlli sarebbe emersa un’attività continuata di hacking, da parte delle stesse autorità, almeno dall’aprile 2015 al febbraio 2016, effettuata tecnicamente impersonando l’identità digitale di Microsoft.

Il sospetto avanzato da Occhionero nelle sue denunce alla Procura di Perugia e al Congresso Usa è che, anche con il caso EyePyramid, qualcuno abbia voluto far credere all’FBI di poter rinvenire elementi utili all’indagine sul Russiagate contro Trump, magari le stesse email hackerate dai russi, sui suoi server americani. La risposta a questa domanda potrebbe essere custodita nella rogatoria internazionale con la quale la Procura di Roma ha chiesto e ottenuto di acquisire quei server. Rogatoria il cui contenuto non ha però voluto produrre in giudizio nonostante la richiesta della difesa. Chiamato a testimoniare nel processo, il responsabile FBI dell’ambasciata Usa di Roma, Kieran Ramsey, ha comunicato attraverso un legale la sua intenzione di non presentarsi. Ma la sensazione è che molto di questa storia sia ancora da scrivere.

 

Estratto di un articolo pubblicato su Atlanticoquotidiano.it

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