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La politica è “un’industria dello spettacolo” (Ronald Reagan)

l Bloc Notes di Michele Magno

Bisogna tornare ai fondali di carta, alle porte che non chiudono, al suggeritore sotto la cupola, alle luci di ribalta, alla sonagliera della carrozza in arrivo. Bisogna vedere un pezzetto di pompiere dietro le quinte (Ennio Flaiano, “Diario degli errori”, Adelphi, 2002). È uno dei tanti passi che dimostrano come nello scrittore pescarese la passione per il teatro fosse perfino più forte di quella per il cinema. Per lui il palcoscenico era il luogo in cui viene messa in scena una falsità più autentica della realtà; rappresentava la superiorità dell’arte sulla natura, dei “fondali di carta”, appunto, sul presunto realismo delle immagini. Se il paragone non pare troppo forzato, in fondo la politica nel tempo della Tv e dei social network è come Flaiano immaginava il teatro: falso e seducente. Uno che se ne intendeva, Ronald Reagan, l’aveva capito anche prima di Guy Debord nel 1965, quando la definì “un’industria dello spettacolo”.

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Diceva Norberto Bobbio che il primo impegno degli intellettuali (termine quanto mai ambiguo, lo so) dovrebbe essere quello di impedire che il monopolio della forza divenga anche il monopolio della verità. Ho perciò sempre diffidato di quei giornalisti, accademici e letterati che predicano il “né di qua né di là”, ritenendo che il loro compito sia quello di non compromettersi con nessuno dei contendenti nella lotta per il potere, di non sporcarsi le mani, di guardare con aristocratico disdegno i cani che si azzuffano; e magari di continuare a speculare, pronosticando sventure, sull’esito della battaglia.

Credono “di galleggiare sui flutti -chiosava lo stesso Bobbio- come i signori della tempesta, e sono respinti, senza che se ne accorgano, in una isola disabitata”. Per riprendere una metafora cara a Julien Benda, tra Michelangelo che rinfaccia a Leonardo la sua indifferenza alle sventure di Firenze, e Leonardo che risponde che lo studio della bellezza occupa tutto il suo cuore, chi scrive non ha dubbi a preferire lo scultore della Pietà.

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L’origine del genere biografico si può datare all’inizio del IV secolo a.C., quando Isocrate compone “Evagora” e Senofonte “Agesilao”. A quel periodo risale la distinzione tra biografia “peripatetica” e biografia “alessandrina”. Entrambe con esplicite finalità apologetiche, la prima privilegiava le vite dei governanti e condottieri, la seconda le vite dei dotti (il maggior esempio è il “De viribus illustris” di Svetonio). Nel I secolo d.C. Plutarco rivoluziona entrambi i modelli, separandoli dalla letteratura encomiastica.

La biografia diventa così rappresentazione dei vizi e delle virtù dell’uomo. “Non scrivo delle opere di storia, ma delle vite”, dichiara l’erudito di Cheronea nel proemio alle biografie di Alessandro e Cesare. “Spesso -aggiunge- un breve fatto, una frase, uno scherzo, rivelano il carattere dell’individuo più di quanto non facciano le battaglie”.

Lo statuto scientifico della biografia è restata a lungo una questione assai controversa. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’attenzione viene interamente spostata sui grandi processi storici. Secondo Benedetto Croce, “L’individuo è pensato e giudicato solo nell’opera che è sua e insieme non sua, che egli fa e che lo oltrepassa” (“La storia come pensiero e azione”, Laterza, 1954).

Altrettanto autorevoli, però, sono state le voci favorevoli alla biografia: lo svizzero Jakob Burckardt la celebra addirittura come una delle più importanti scoperte del Rinascimento italiano. Mentre Arnaldo Momigliano sarà il primo a interrogarsi -in un ciclo di lezioni tenuto alla Harward University nel 1968- sul rapporto che lega il genere biografico alla storiografia, riconoscendo sua legittimità e la sua autonomia nella ricerca sociale (“Lo sviluppo della biografia greca”, Einaudi, 1971).

In Europa il genere biografico conosce una apprezzabile fioritura nei decenni terminali del “secolo breve”, complici la disgregazione dell’impero sovietico, la fine del mondo bipolare, la crisi delle ideologie di massa, i travagli della transizione postcomunista. Crollano le antiche certezze sulla dimensione teleologica della storia, già messe a dura prova dalla Shoah e dal rischio di una guerra nucleare. Emergono atteggiamenti più cauti e disincantati, forme meno ambiziose e meno totalizzanti di comprensione degli eventi storici. Il genere biografico acquista così una rinnovata vitalità.

Nel 1989 Jacques Le Goff, sul periodico “Le Débat”, definisce la biografia come un “indispensabile strumento d’analisi delle strutture sociali e dei comportamenti collettivi”. Nello stesso anno, un numero delle “Annales” si apre con un intervento di Giovanni Levi sull’utilità della biografia nelle scienze sociali. Del resto, gli stessi fondatori della rivista, Marc Bloch e Lucien Febvre, erano piuttosto cauti di fronte alle pretese prevaricatrici della “storia delle strutture” (istituzionali, economiche, demografiche) sulla “storia degli uomini”. Non fortuitamente, si deve proprio a Febvre una superba biografia di Lutero (1928). Questo mutamento di clima si rispecchia in modo esemplare nel percorso intellettuale di Ian Kershaw, uno dei maggiori studiosi del Terzo Reich.

Lo storico inglese, di formazione strutturalista, approda alla stesura di una biografia di Hitler (uscita nel 1998) spinto dall’insopprimibile bisogno -come confessa nella prefazione- di “approfondire la riflessione sull’uomo che fu fulcro indispensabile e centro ispiratore” del regime nazista (“Hitler”, 2 voll., Bompiani, 2003). Servendosi del concetto weberiano di carisma per spiegare sia l’autorità assoluta del dittatore sia il gregarismo del popolo tedesco, il professore dell’università di Sheffield tratteggia un profilo del Führer che -come egli stesso ammette- si risolve in definitiva nella “storia del suo potere”.

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