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Tom Barrack

Perché non concordo con le tesi anti Trump su Turchia e Siria. L’analisi di George Friedman

Tollerare le intemperanze levantine di Erdogan come fa Trump su Siria e curdi è secondo Friedman il prezzo da pagare per trattenere nella propria orbita un Paese che da tempo tresca con due dei tre nemici strategici dell’America, Russia e Iran.

 

Non è mancato, negli Stati Uniti e non solo, chi ha visto nell’attacco turco al Rojava curdo, ma soprattutto nel via libera preventivo fornito ad Ankara da Donald Trump, i segni di radicali capovolgimenti geopolitici. Nel dibattito pubblico di questi giorni hanno fatto capolino così interpretazioni, istanze e richieste di ogni genere, comprese quelle al limite della stravaganza.

Si va dal funerale dell’impero a stelle e strisce, che avrebbe abdicato nella sua antica riserva di caccia mediorientale con l’aggravante di averlo fatto abbandonando al loro destino i valorosi alleati curdi distruttori del Califfato, al requiem per l’alleanza strategica tra Usa e Turchia, crollata sotto il peso dell’irruenza neo-ottomana di Erdogan e dei suoi inquietanti flirt con Russia e Iran, fino all’ingiunzione di rimuovere dalla base turca di Incirlik le cinquanta testate nucleari che gli americani hanno piazzato tempo fa sul suolo turco a presidio del fianco sud della Nato.

Pur non prive di interesse né del tutto destituite di fondamento, queste considerazioni e analisi si rivelano però spesso e volentieri contaminate da dati emotivi che ne inficiano il rigore logico, allontanandosi dunque anche di molto dalla realtà. Una realtà che, pur essendo oggettivamente complessa e intrisa di ambiguità, richiede proprio per questo una dose aggiuntiva di freddezza e lucidità per ricavarne delle lezioni attendibili sul nuovo corso della storia messo in moto da questi fatti recentissimi e non solo.

Che cosa scrive, ad esempio, un analista di rango come George Friedman? L’attuale presidente di Geopolitical Futures che fu già fondatore del centro di analisi strategiche Stratfor e autore di bestseller come The Emerging Crisis in Europe, The Next Decade, America’s Secret War, The Future of War e The Intelligence Edge, ha scritto pochi giorni fa un interessante saggio sugli ultimi stravolgimenti della politica estera Usa che meritava di essere segnalato e commentato in questa sede.

Il primo aspetto che salta agli occhi dell’analisi di Friedman è il suo rifiuto categorico di unirsi al coro di chi si è sgolato a condannare la mossa di Donald Trump. Lungi dal compararla come altri al tradimento dei valorosi peshmerga e al suicidio strategico dell’ex gendarme del mondo, che smobilita precipitosamente da uno dei teatri del suo potere imperiale per cedere il posto alle bizze del sempre più ex alleato turco e, soprattutto, far accomodare sul trono lo Zar, Friedman riconduce quella decisione alle sue autentiche “origini geopolitiche e strategiche”.

Origini che non possono essere afferrate secondo Friedman senza prendere in considerazione lo scontro in atto negli Usa tra la visione del presidente e quella del Pentagono. Uno scontro che va avanti dai giorni ormai lontani dell’insediamento del tycoon alla Casa Bianca e che si è reso sempre più palese man mano che le decisioni del commander in chief sono entrate in rotta di collisione con le priorità della comunità militare.

Comunità il cui sentimento non può essere colto, a detta di Friedman, se non si parte da un presupposto: la forma mentis di questa comunità, e dunque la sua stessa identità, si sono formate nell’agone della famosa Long War, la guerra più lunga mai combattuta dagli Usa contro quel nemico sfuggente ma implacabile che si chiama terrorismo jihadista.

Come osserva Friedman, gli attuali ranghi delle forze armate, così come tutto il sottobosco di analisti e consiglieri militari che ne costituisce un’appendice, sono formati da individui che “sono giunti a maturazione combattendo guerre in Medio Oriente. La Lunga Guerra è stata”, sottolinea l’analista, “la loro carriera”.

In tutto ciò, Friedman vede una sorta di bis di quanto si è registrato negli anni della guerra fredda: tempi in cui le carriere di generali, cadetti e soldati semplici erano scandite dall’attesa dell’invasione dell’Europa occidentale da parte dei tank sovietici. Per questi Cold Warriors, osserva correttamente Friedman, “un mondo senza guerra fredda era semplicemente impensabile”.

Eccolo qui, dunque, il primo punto fermo dell’analisi di Friedman: così come la generazione militare cresciuta all’ombra della minaccia dell’Orso sovietico aveva un suo peculiare imprinting, lo stesso può dirsi per i loro successori della generazione Sandbox formatisi nel contrasto del fanatismo terroristico di Osama bin Laden prima e di al-Baghdadi poi nonché della guerriglia jihadista nei vasti territori mediorientali calpestati dagli scarponi della fanteria e delle forze speciali Usa schierati in loco dai presidenti George W. Bush e Barack Obama.

La conseguenza di tutto ciò è presto detta e spiega bene secondo Friedman le reazioni quasi isteriche alle ultime decisioni della Casa Bianca: agli occhi di questi uomini in divisa cresciuti a pane, droni e islam, il ritiro delle truppe Usa dalla Siria, e il più generale riorientamento della politica estera Usa che non guarda più al Medio Oriente come il teatro strategico principale, non può che corrispondere al più violento e illogico dei “tradimenti”.

Per quanto comprensibile, lo stato d’animo del Pentagono finisce così per assomigliare ad una sorta di “nostalgia” che poco ha da spartire con la razionalità del calcolo strategico. Un calcolo che invece Friedman sollecita a fare quanto prima per prendere atto di due fatti ineluttabili. Il primo dei quali è che la “missione” degli Usa non è più la stessa di quando Osama era vivo e vegeto e minacciava con le sue truppe invisibili la popolazione civile dei Paesi occidentali, e nemmeno di quando – e stiamo parlando di pochi anni fa – le bandiere nere dell’Isis si erano ritagliate uno Stato tutto loro nel Levante trasformandolo in base logistica da cui pianificare l’assedio di tutto il Medio Oriente e attentati in Europa e non solo.

Per Friedman non è possibile ignorare che la minaccia dello “Stato Islamico è ampiamente diminuita, così come quella di al Qaida”, che “la sollevazione sunnita in Iraq è finita”, e che “persino la guerra civile siriana non è più ciò che era una volta”.  Dopo 18 anni di guerra è insomma giunto il tempo del bilancio. E questo bilancio per il presidente di Geopolitical Futures ci dice sostanzialmente due cose: anzitutto, “che il modesto obiettivo (iniziale) di sradicare il terrorismo è stato raggiunto”, e in secondo luogo che l’obiettivo finale” coltivato dagli strateghi dell’era Bush, ossia propiziare in Medio Oriente il sorgere di “qualcosa che assomigliasse almeno vagamente alle democrazie liberali” si è rivelato “impossibile” ed era dunque un calcolo sbagliato sin dal principio.

Ai necessari riposizionamenti che ne debbono derivare per la superpotenza a stelle e strisce non è estraneo però un altro ordine di considerazioni che ci riporta al secondo perno del ragionamento di Friedman. Il punto, qui, è nudo e semplice ed è, per dirla con l’analista, che “il mondo è cambiato enormemente dal 2001”, l’anno delle Torri Gemelle e dell’avvio della Long War.

I volti di questo cambiamento sono, anzitutto, quello della potenza cinese assurta al rango di incipiente superpotenza militare oltre che di impero economico sparso su tre continenti. È poi quello di una Russia che, sotto la ferma leadership di Vladimir Putin, è tornata a pensare in grande dopo la micidiale umiliazione del 1989-91. E, infine, è quello di un Iran in piena espansione e che perciò – rileva Friedman – “è diventata la principale sfida” per gli Usa nel quadrante mediorientale.

Chi ha colto bene questa metamorfosi del panorama globale, ed ha agito di conseguenza, è stata proprio la squadra di Donald Trump. Che combattendo ad oltranza con un establishment militare con la mente ancora intasata dalle sabbie arabe ha intrapreso sostanzialmente due radicali cambi di passo: il ritorno all’era della competizione tra grandi potenze da un lato, e dall’altro la scelta di rinunciare al vizio del grilletto facile .

Su quest’ultimo punto è ben nota la posizione di Donald Trump, leader ondivago ma che sembra ben saldo nell’orientamento che predica – per dirla con Friedman – il ricorso alla forza militare “più come eccezione che come regola”. Questa sembra anzi essere una costante della politica trumpiana, che ha rinunciato ad esempio a scatenare “fuoco e furia” contro le provocazioni di “Kim l’atomico” o ad attaccare la Repubblica Islamica anche quando, quest’estate, ha abbattuto un drone Usa o attaccato petroliere straniere nel Golfo dell’Oman.

Da questo mutamento di orizzonte discendono le tre missioni che Lister individua come prioritarie per gli Usa nell’era di The Donald: il contenimento rispettivamente di Cina, Russia e Iran. Missioni per perseguire le quali è necessario un cambio nell’assetto strategico americano, con particolare riguardo al dispiegamento della macchina militare e alla rete di alleanze da forgiare.

Se così l’obiettivo è impedire al Dragone di sostituire gli Usa come potenza dominante nell’Asia-Pacifico, ne discende necessariamente l’impegno a presidiare, tanto politicamente che militarmente, un vastissimo tratto di mare che va dal Giappone all’Indonesia a Singapore, passando per la Corea del Sud. Per quanto riguarda invece la Russia, la priorità è cementare la capacità di deterrenza dell’Alleanza Atlantica nell’Europa centro-orientale, con un ruolo chiave affidato a Nord alla Polonia e a Sud alla Romania. Per il contenimento dell’Iran, infine, si sta facendo largo com’è noto un inedito asse sunnita-israeliano incentrato sul ruolo guida degli Usa che è forse la novità più sorprendente della geopolitica del XXI secolo.

Ed è qui che il ragionamento di Friedman torna al punto da cui era partito: dalla Turchia. La cui inclusione nel framework anti-russo e anti-iraniano è da ritenersi a tal punto imprescindibile da suggerire agli Usa di ingoiare qualche rospo di cui l’offensiva contro i curdi è forse l’esempio più lampante.

Tollerare le intemperanze levantine di Erdogan è secondo Friedman il prezzo da pagare per trattenere nella propria orbita un Paese che da tempo tresca apertamente con due dei tre nemici strategici dell’America, Russia e Iran. Insomma, spiega Friedman,  “la relazione con un (paese) che è già alleato attraverso la Nato e un legame bilaterale di lunga data è nell’interesse americano perché crea una struttura che (va a contrastare) le ambizioni iraniane nel Mediterraneo e a rappresentare un complemento all’alleanza tra Usa e Romania”.

Applicata ai fatti degli ultimi giorni, l’analisi  ha un corollario che striderà nelle orecchie di chi li ha passati evocando a gran voce il tradimento curdo dell’America. Questo grido di dolore è chiaramente incompatibile con il dato oggettivo rappresentato per Friedman dal fatto che per l’imprescindibile alleato di Ankara il primo imperativo strategico è “mantenere la stabilità nella Turchia orientale”, ossia il territorio abitato dai curdi. Stabilità che è ovviamente messa a repentaglio dalla nascita, a sud, di un’enclave curda – il Rojava – che agli occhi di Erdogan non può che apparire come un minaccioso retroterra a disposizione della guerriglia dei curdi di Turchia. Come osserva Friedman, “per i turchi, avere i curdi al proprio confine rappresenta una minaccia imprevedibile” che il loro presidente non è ovviamente disposto a tollerare.

La conclusione da trarre è cristallina: “In relazione (alla minaccia) dell’Iran, la Turchia diventa più importante per gli Usa rispetto ai curdi”. E il sacrificio di questi ultimi da parte dell’amministrazione Trump è, di conseguenza, il frutto di un calcolo razionale per quanto cinico. Ma la politica estera, ricorda giustamente Friedman, “è un processo rude dove i sentimenti non hanno posto”.

Ecco dunque che l’analista si dice convinto che Erdogan raccoglierà l’invito alla Casa Bianca formulato da Donald Trump nel pieno della crisi curda. E che i due, quando si troveranno faccia a faccia, si accorderanno per quel “riallineamento nella regione tra la potenza globale e la potenza regionale” che è nell’interesse di entrambi. Con buona pace dei curdi e dei loro 11 mila uomini e donne periti nell’epico scontro contro l’Isis.

(estratto dal Taccuino Estero di Marco Orioles per Policy Maker)

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