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Xi

Perché la Cina dirà ciao agli Stati Uniti

L’approfondimento di Andrea Pira, giornalista di Mf/Milano Finanza, su presente e futuro degli investimenti cinesi negli Stati Uniti Crollano gli investimenti cinesi negli Stati Uniti. Lo spettro di una guerra commerciale tra le prime due economie al mondo, i timori del Congresso statunitense per i rischi alla sicurezza nazionale legati all’arrivo di imprese del Dragone…

Crollano gli investimenti cinesi negli Stati Uniti. Lo spettro di una guerra commerciale tra le prime due economie al mondo, i timori del Congresso statunitense per i rischi alla sicurezza nazionale legati all’arrivo di imprese del Dragone e le minacce dell’amministrazione del presidente Donald Trump di ulteriori restrizioni nell’ambito dell’indagine aperta in base alla sezione 301 del Trade Act del 1974, hanno spinto acquisizioni e operazioni greenfield ai minimi da sette anni. Il valore complessivo degli investimenti andati in porto nella prima metà dell’anno è stato di 1,8 miliardi di dollari. Un tonfo del 92% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il calo degli investimenti diretti cinesi negli Usa è ormai «reale e persistente», commenta Thilo Hanemann nell’ultima ricerca del Rodhium Group. Già nell’ultimo anno gli investimenti cinesi all’estero avevano risentito delle restrizioni imposte da Pechino per contenere i rischi finanziari e la fuori uscita di capitali.

Dai 46 miliardi del 2016 si è passati ai 29 miliardi del 2017. Da gennaio sono già saltate operazioni per 2 miliardi di dollari, tra cui il passaggio di MoneyGram ad AntFinancial del gruppo Alibaba e quello del fondo SkyBridge alla conglomerata Hna, naufragato per l’allungarsi dei tempi per il via libera all’operazione dal Cfius, il comitato che vigila sugli investimenti stranieri sul suolo statunitense. Anche il volume e il valore delle transazioni annunciate è sotto tono e non fa presagire scatti nella seconda metà del 2018. Ulteriori restrizioni potrebbero peraltro arrivare dalla norma che rafforza il ruolo del Cfius e che potrebbe ostacolare anche interventi cinesi sotto forma di venture capital, nonché trasferimenti di tecnologia alle imprese d’oltre Muraglia, dando maggiori poteri al Dipartimento del Commercio.

Non soltanto il Dragone ha difficoltà a investire negli Usa. Chi già c’è sta disinvestendo: a maggio le cessioni ammontavano a 9,6 miliardi di dollari e altri 4 miliardi potrebbero aggiungersi nei prossimi mesi. L’elenco include alcuni dei big dell’espansione cinese fuori dai propri confini: Hna ha dovuto mettere in vendita proprietà immobiliari a New York e San Francisco per far fronte ai problemi di indebitamento. Wanda sta facendo lo stesso con la Vista Tower a Chicago. Rodhium cita anche le possibili cessioni di asset da parte di Anbang, il colosso assicurativo di fatto commissariato dai regolatori cinesi.

Intanto nella guerra di nervi aperta dalla minaccia di nuovi dazi al 10% su 200 miliardi di dollari in merci importate dalla Cina, la stampa di Pechino mette nel mirino il listino Dow Jones. Il Global Times, legato alla galassia del governativo Quotidiano del popolo e spesso portavoce delle posizioni più dure dell’amministrazione cinese, dopo aver anticipato nei mesi scorsi le restrizioni sull’agricoltura, non esclude ora che il mercato azionario Usa possa essere colpito pesantemente dalle frizioni commerciali, diventando bersaglio della linea dura di Pechino. «I gruppi che compongono il Dow Jones Average potrebbero essere tra i primi a dover sostenere l’impatto delle contromisure cinesi», ammonisce il quotidiano, citando Apple , Boeing, Caterpillar.

Articolo pubblicato su Mf/Milano finanza

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