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Soleimani Martire, che cosa (non) ha fatto l’Iran contro gli Usa. L’analisi di Gagliano

I missili che hanno preso di mira le truppe americane in Irak offrono indizi significativi: mancanza di volontà da parte dell’Iran di porre le condizioni per una guerra totale e volontà di attuare ritorsioni su scala limitata. L'analisi di Giuseppe Gagliano sull’operazione “Soleimani Martire”

Partiamo come di consueto dai fatti. L’Iran ha dato il via all’operazione “Soleimani Martire” lanciando alcuni missili contro le basi statunitensi e della Coalizione di Ayn al-AsSad nella provincia occidentale di al-Anbar e nei pressi di Erbil, nel Kurdistan iracheno.

I missili che hanno preso di mira le truppe americane in Irak offrono indizi significativi sotto il profilo strategico e politico sullo scontro in evoluzione tra Iran e Stati Uniti. L’attacco sembra essere stato in gran parte simbolico, un tentativo piuttosto affrettato di ripristinare parte del prestigio ferito dell’Iran in seguito all’assassinio di Qassem Soleimani. Allo stesso tempo, tuttavia, potrebbe essere il preludio a un più ampio conflitto a dimensione regionale.

Allo stato attuale è necessario sottolineare due aspetti di particolare importanza dell’offensiva militare posta in essere dall’Iran. In primo luogo, il fatto che Teheran non abbia allo stato attuale colpito obiettivi americani usando le sue ramificazioni in Irak, Libano o Yemen ma abbia posto in essere una offensiva missilistica esplicitando la matrice iraniana.

In passato infatti l’Iran ha avuto grande cura di evitare di dare informazioni strategiche sul suo coinvolgimento diretto in attacchi militari o paramilitari ai propri avversari. D’altronde l’eliminazione di Soleimani è vista da Teheran come troppo offensiva per attuare una risposta militare indiretta. Questo naturalmente non esclude che l’Iran possa ritornare ad attuare il suo metodo di offensiva standard tradizionale.

In secondo luogo l’offensiva missilistica è stata limitata: il numero di missili lanciati infatti è stato sorprendentemente basso, sebbene l’Iran possieda la maggiore forza di missili balistici in tutto il Medio Oriente.

Inoltre, è interessante il fatto che Teheran abbia diretto i suoi attacchi contro l’obiettivo americano più ovvio e prevedibile nella regione ovvero il personale militare americano statunitense che si trova sul territorio controllato dall’Iran.

In terzo luogo, è necessario osservare che se Teheran avesse voluto davvero superare il punto di non ritorno, avrebbe potuto porre in essere diverse opzioni: attuare un’offensiva missilistica nei confronti delle strutture diplomatiche americane presenti per esempio in Iraq, Israele e Giordania; oppure avrebbero potuto pianificare una offensiva militare contro obiettivi politici e commerciali americani presenti in Arabia Saudita. Inoltre, come già indicato in un articolo precedente, avrebbero potuto bloccare il traffico commerciale nello Stretto di Hormuz.

Infine avrebbe potuto pianificare una offensiva più ampia in grado cioè di attuare un’offensiva simultanea inducendo gli Usa a mettere in atto una guerra totale. Tutto ciò, allo stato attuale, può essere dunque interpretato da un lato come la mancanza di volontà politica e strategica da parte dell’Iran di porre le condizioni per una guerra totale e dall’altro lato come la volontà di attuare delle ritorsioni su scala limitata.

In conclusione, per quanto riguarda questa vicenda come per quella libica, un tale conflitto — per quanto fino a questo momento circoscritto e limitato — non farà altro che indebolire la coalizione internazionale anti-Isis.

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