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Perché i giornalisti si beccano i Vaffa di Grillo e stanno zitti? I Graffi di Damato

Che razza di giornalisti siamo volontariamente diventati anche noi, come molti politici, sia di quelli al governo sia di quelli all’opposizione, che non replicano all'insolente sferza di Beppe Grillo? I Graffi del notista politico Francesco Damato

Mi chiedo, con una franchezza pari solo allo sgomento, che razza di giornalisti siamo volontariamente diventati anche noi, come molti politici, sia di quelli al governo sia di quelli all’opposizione, sotto la sferza di Beppe Grillo: il comico e insieme fondatore, “elevato”, garante e non so cos’altro di un movimento che ha legittimamente conquistato, per carità, nelle elezioni politiche del 4 marzo 2018 i seggi parlamentari e il ruolo del partito di maggioranza che fu quello della Dc. Ma che ha perso rapidamente in ogni tipo di appuntamento elettorale una quantità enorme di voti, e un po’ anche di parlamentari passati ai gruppi misti o direttamente a quelli della Lega, al Senato. Esso alterna col massimo della disinvoltura gli alleati al governo, da destra a sinistra, pur di evitare uno scioglimento anticipato delle Camere che ne sancirebbe quanto meno il dimezzamento.

Lascio ai politici la scelta e la pratica dei rapporti da tenere con questo movimento stellare anche nel titolo che si è scelto, e degli effetti da scaricare sul Paese. Che era già messo male di suo rima dell’arrivo dei pentastellati in Parlamento e ora sta inevitabilmente e conseguentemente peggio. Ma noi giornalisti – ripeto – dovremmo pur deciderci a qualche scelta nei rapporti con questo singolare protagonista ormai della politica, pur chiuso dietro i cancelli delle sue ville e ogni tanto a Roma per le missioni di controllo, persuasione e altro ancora.

Ci siamo già fatti dire un sacco di volte da Grillo che gli facciamo tanto schifo da volerci mangiare solo per provare poi il gusto – per lui – di “vomitarci”, letteralmente. Abbiamo continuato a sentirlo e ad avvertirlo come un comico, sia pure di simile livello, più che come un politico.

Poi gli abbiamo permesso a lungo, prima che smettesse da solo per stanchezza e non perché costrettovi da qualche sentenza promossa da una denuncia o querela, di diffondere liste di sostanziale proscrizione, con tanto di nomi e cognomi di giornalisti indegni di essere letti. Una simile idea non la ebbero neppure i fascisti quando comparvero sulla scena politica italiana e ne scalarono con tragico successo i vertici.

Ora abbiamo appena permesso, senza un filo di protesta, e tanto meno con qualche iniziativa di doverosa diserzione delle sue incursioni, lasciandolo finalmente solo con i suoi amici, o restituendolo alle dimensioni che merita, di sentirsi sanitariamente minacciato dall’alito di chi per mestiere lo avvicina e gli fa domande, sino a indossare una mascherina di difesa dai “batteri” dei microfoni tesi verso di lui. E questo sarebbe anche il signore che col realismo di un umanista, e non soltanto più di un “avvocato del popolo”, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, con alito evidentemente a denominazione e purezza controllata, si è sentito in obbligo di andare ad omaggiare in un convegno a due passi da Palazzo Chigi, tra una riunione e l’altra di una maggioranza e persino di un governo spesso surreale, composto da partiti e uomini che se ne dicono e scambiano di tutti i colori, sopra e sotto il tavolo.

Impallidisco all’idea che dalle decisioni, ahimè, di tutti costoro stiano per dipendere anche le sorti di un istituto di previdenza, ridotto ad un bancomat per editori prevalentemente impuri, come si dice comunemente, ma ideato a suo tempo a tutela dell’autonomia e dell’indipendenza del giornalisti e della loro professione. Che in un paese normale dovrebbe valere quanto l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, pur a carriere separate, come auspica ogni tanto Luciano Violante denunciando giustamente e coraggiosamente, con l’esperienza e l’autorità di un ex magistrato e di un ex presidente della Camera, le distorsioni intervenute nei rapporti fra toghe e testate.

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