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Davigo

Perché gli avvocati di Milano criticano Davigo?

I Graffi di Damato sulle proteste degli avvocati milanesi per l'inaugurazione dell’anno giudiziario ambrosiano affidata a Piercamillo Davigo dal Consiglio Superiore della Magistratura

A vent’anni dalla morte di Bettino Craxi, odiato ancora dai suoi vecchi avversari nonostante la pietà animata nelle sale cinematografiche con la rappresentazione dei suoi ultimi anni e giorni di vita lontano dall’Italia,  e a ventotto dal clamoroso lancio di quel missile giudiziario che si sarebbe rivelato l’inchiesta “Mani pulite”, abbattutosi sulla cosiddetta Prima Repubblica incenerendola, può stupire sino ad un certo punto che il Consiglio Superiore della Magistratura abbia delegato la propria rappresentanza all’inaugurazione dell’anno giudiziario ambrosiano a Piercamillo Davigo. Che fu tra i protagonisti — il più “sottile” a attrezzato professionalmente, si dice ancora — di quell’inchiesta, tenutosi poi prudentemente lontano dalla politica, diversamente dal suo collega Antonio Di Pietro o dal suo superiore Gerardo D’Ambrosio.

Non può stupire neppure la fretta per niente imbarazzata con la quale sono state liquidate la proteste degli avvocati milanesi, motivate non dal passato ma dal presente. Essi sono rimasti appesi alle loro critiche alle opinioni che Davigo usa esprimere sul lavoro forense come Matteo Salvini a quel disgraziato citofono bolognese che gli è costato probabilmente la “prima” sconfitta elettorale dopo più di un anno di successi.

La sorpresa maggiore tuttavia è venuta dagli avvocati non milanesi, diciamo così, rimasti sostanzialmente alla finestra nel timore di apparire anch’essi  impegnati a discutere della libertà di Davigo di esprimere le sue pur opinabili opinioni ogni qualvolta gliene capiti l’occasione, davanti ad un microfono o in un salotto televisivo: per esempio, quella di considerare gli innocenti come scampati alla condanna. Che è un’opinione certo, ma un po’ forte, e persino traumatica per uno sfortunato di media cultura che si aspetta francamente altro da un magistrato.

Forse la scarsa considerazione che Davigo mostra ogni tanto di avere degli avvocati nasce proprio dall’opinione, anch’essa liberissima, che siano troppo bravi a trasformare i colpevoli in innocenti, con tanto di sentenze non di odiata prescrizione ma di assoluzione per non vare commesso il fatto o perché il fatto non sussiste. Non parliamo poi degli avvocati a patrocinio cosiddetto gratuito. Che, già pagati troppo generosamente da uno Stato che si fa imbrogliare da falsi non abbienti, fanno a difesa dell’imputato di turno “più atti possibile per aumentare la parcella”, non perché essi servano sempre, e davvero, ad aiutare o salvare l’imputato. Ma ce n’è — per esempio, in una lunga intervista di Davigo pubblicata il 9 gennaio scorso dal Fatto Quotidiano e raccolta personalmente, con la solita diligenza, dal direttore in persona Marco Travaglio — anche per gli avvocati a patrocinio non gratuito per quella loro mania di appellarsi sempre e comunque ad una sentenza di condanna, tanto per non fare la figura dei “fessi” e per ritardare, male che vada, l’esecuzione della pena detentiva.

Ebbene, poiché il carcere – sentite questo sillogismo di Davigo — ha per dettato costituzionale, e per fortuna, una natura rieducativa, redentrice o com’altro volete chiamarla, l’avvocato che ne procura il rinvio finisce per nuocere al suo stesso cliente, ritardandone la guarigione. E ringrazi Dio, questo avvocato, se a nessun procuratore o sostituto procuratore della Repubblica emulo della sensibilità e della scienza di Davigo non sia ancora venuta l’idea, che si sappia, di indagarlo e farlo processare per il danno ingiusto procurato al suo cliente.

E meno male — va detto con un certo sollievo — che a suo tempo Davigo, quando lavorava nel pool di “Mani pulite” sentì il bisogno e l’opportunità di smentire il proposito attribuitogli di scambiare i suoi uffici per una sartoria, lavanderia e qualcosa del genere, dove “rivoltare l’Italia come un calzino”. Che fu una leggenda tradotta da molti elettori – non so dire con franchezza, dopo tanti anni, se fortunatamente o sfortunatamente- nella scelta di affidare quel compito non ai magistrati ma a Silvio Berlusconi, facendogli vincere le elezioni politiche del 1994. E pentendosene già dopo qualche settimana, quando i più informati, almeno, appresero che il Cavaliere da presidente del Consiglio malvolentieri incaricato da Oscar Luigi Scalfaro aveva offerto il Ministero della Giustizia ad Antonio Di Pietro, ancora sostituto procuratore a Milano, e accarezzato l’idea di proporre il Ministero dell’Interno a Davigo, o viceversa se i due avessero voluto.

Ah, come sono andate le cose, prima ancora di come vanno, in questo nostro stupefacente e imprevedibile Paese.

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