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Meritocrazia

L’establishment riuscirà ad assorbire le spinte sovraniste e populiste?

L’analisi di Corrado Ocone pubblicata sul nuovo numero della rivista della Fondazione Craxi “Le Sfide” sulle culture politiche dell'Italia Repubblica con le attuali spinte populiste e sovraniste

 

L’Italia, nel corso del Novecento, è stata terra eletta per le culture politiche. Nessun altro Paese, almeno dell’Occidente, ne ha visto una così ricca articolazione. Di solito, altrove, sono state due grandi culture, una progressista e l’altra conservatrice, che si sono contese il campo e hanno assorbito al proprio interno idee e declinazioni politiche diverse. Da noi una grande vera cultura conservatrice non è mai esistita, o meglio non ha mai inciso politicamente, ed è stato il Partito cattolico, nel secondo dopoguerra, che ha fatto da rappresentanza ai più moderati dei conservatori, che, casomai “turandosi il naso”, convivevano, nello stesso partito, con tendenze di tutt’altro tipo. D’altro canto, nemmeno a sinistra c’è mai stato molto spazio per un partito autenticamente riformista, o socialdemocratico. Il fatto è che da noi ha avuto più fortuna che altrove l’idea di “rivoluzione”, che, seguendo la linea tracciata da Paolo Buchignani, possiamo dire che è maturata nel pensiero primonovecentesco, e segnatamente in quello di Alfredo Oriani, per poi diffondersi, diversamente concepita e teorizzata, a destra come a sinistra. Che sia stata il più delle volte una “rivoluzione” parolaia, cioè predicata piuttosto che praticata, rimandata ad un roseo futuro o al contrario considerata “tradita”, che fosse morale o politica, poco importa. Il risultato è stato sempre e comunque un ideologismo di fondo e una retorica che mal si è accompagnata ai processi politici di modernizzazione che pure nel secondo dopoguerra hanno gradualmente avuto corso.

NEL DOPOGUERRA, CATTOLICESIMO POLITICO E MARXISMO

Le maggiori culture politiche italiane furono ovviamente tutte all’opposizione durante il periodo fascista e i loro rappresentanti, in carcere o in esilio, rappresentavano un’esigua minoranza nel Paese reale, che, come ci ha insegnato Renzo De Felice, aveva per lo più, e non solo esteriormente, aderito al fascismo. Il quale, lungi però dall’essere un monolite, aveva incorporato in sé molte delle articolazioni e delle culture presenti nella società italiana. Di esse, una sola era destinata a non sopravvivere alla fine del regime: quella nazionalistica, che risalente all’inizio del secolo era poi transitata nell’ideologia fascista che l’aveva considerata e adattata come parte integrante in sé. Con l’8 settembre, come è noto, ci fu anche “la morte della Patria”, per usare la fortunata espressione di Ernesto Galli della Loggia, ed ogni idea anche di Nazione passò in secondo piano. D’altronde, le due culture politiche o ideologie che avrebbero dominato dopo la liberazione, il cattolicesimo politico e il Marxismo, erano entrambe a vocazione universalistica, richiamandosi l’una all’ecumenismo cattolico e l’altra all’internazionalismo proletario (seppur convertito nella visione di Palmiro Togliatti in una non mai ben precisata “via italiana al socialismo”).

Il paradosso è che, pur collocandosi il Marxismo culturalmente (e non solo) nell’area di influenza sovietica e non in quella atlantica a cui faceva invece riferimento (con qualche distinguo) il cattolicesimo politico, fu il primo piuttosto che il secondo a dare sempre più il tono alla cultura italiana, realizzando in concreto quel “progetto Gramsci” che era stato disegnato da Togliatti per la conquista delle “casematte” in cui le idee venivano prodotte per essere poi diffuse a larghe fasce sociali. In primo luogo, le scuole e le università, ma poi anche il mondo dell’editoria, del giornalismo e persino dello spettacolo e dell’intrattenimento. Ad essere conquistato fu quel ceto medio, poi detto “riflessivo”, che, man mano che cresceva e diventava “affluente”, avrebbe contribuito a creare, sempre gramscianamente, quella che non è esagerato chiamare una “egemonia culturale”.

Fu in questo contesto che il Sessantotto, che fu un fenomeno mondiale e che partì nei campus americani almeno a metà degli anni Sessanta, in Italia presentò subito due grosse particolarità: fu marxista più che anarchico e libertario; si prolungò in un “lungo Sessantotto” che attraversò la successiva stagione “terroristica” e degli “opposti estremismi” in parte non irrilevante, contribuendo a determinarla e ad alimentarla. Il Marxismo del movimento giovanile e della nuova classe borghese emergente fu sempre meno legato all’Unione Sovietica, anche se non evolvé mai verso un riformismo socialista o una socialdemocrazia di stampo tedesco-occidentale. La sinistra italiana “ufficiale” non ebbe mai la sua Bad Godesberg e si tenne sempre in un limbo alla ricerca di una non mai precisata “terza via”.

Fu Bettino Craxi che tentò, a partire dalla metà degli anni Settanta, di cambiare le cose e di ribaltare certi rapporti di forza a sinistra, costruendo una “alternativa socialista” di ispirazione liberale e libertaria: ma il suo tentativo riuscì in minima parte, arenandosi poi nel decennio successivo. Piuttosto, ebbe a sinistra una rivincita postuma, sempre negli anni Settanta, il vecchio Partito d’Azione, il “partito degli intellettuali” che, bocciato dagli elettori, si era definitivamente sciolto nel 1947. La sua cultura però aveva irrorato una parte non indifferente dell’élite culturale e politica del secondo dopoguerra, presente in tutti i partiti e nella società civile, crescendo insieme alla nuova borghesia. Il suo ruolo era stato per lo più ancillare a quello dei comunisti, in un’ottica da “indipendenti di sinistra” che comunque contribuiva a creare un omogeneo blocco culturale se non proprio sociale. La fondazione nel 1976 da parte di Eugenio Scalfari del quotidiano La Repubblica, e il suo successivo successo di pubblico e vendite, si mostrò alla lunga più efficace nell’opera di superamento a sinistra dell’egemonia marxista che non la via riformista o liberale. In particolar modo perché, proprio nell’ottica del vecchio azionismo, il nuovo giornale, continuando l’opera intrapresa da L’Espresso, traghettò una visione moralistica e in molti casi giustizialistica della politica. In effetti, la sponda fu data dal segretario dello stesso PCI, Enrico Berlinguer, che in una celebre intervista a Scalfari pose nel 1981 la “questione morale” come centrale nella politica di sinistra. Espressione di gruppi e lobby economiche influenti, che rinsaldavano in qualche modo quel patto sottinteso fra capitale e lavoro che si era andato costruendo fin dai giorni della Resistenza La Repubblica

II REPUBBLICA, “GRAMSCI-AZIONISMO”, LIBERALI E FEDERALISTI

Più avanti il PCI, proprio mentre si trasformava in PDS prima e DS poi, operava un’altra storica conversione che veniva incontro alle esigenze del nuovo ceto dirigente: si fece, soprattutto per impulso di personalità come Giorgio Napolitano, quello che mai era stato, europeista (e quindi atlantista). Erano così poste a sinistra le basi per l’adesione dalla parte dei vincenti all’impostazione della globalizzazione, che avvenne anche in sede di progetto europeo, segnatamente fra il 1989 e il 1994. La sinistra, come è stato efficacemente scritto, portava, non solo in Italia, i suoi Lari all’altare dell’élite mondiale e della sua ideologia globalista. La quale nasceva nel nostro Paese dalla saldatura impolitica fra un eticismo moraleggiante di stampo azionista, appunto, che si legava a meraviglia con il “politicamente corretto” che investiva la cultura internazionale, e un’adesione di massima al libero mercato e agli scambi internazionali. Riviste come Reset, che raccoglieva fra i soci fondatori la migliore intellettualità della sinistra vecchia e nuova, si fecero portatrici di questa visione, cercando di mettere in circolo le nuove idee che provenivano da oltre Oceano con la tradizione storica del gramsciazionismo italiano. Mentre l’ala più giustizialista, o del partito dei giudici, veniva coperta da “MicroMega”. L’operazione iperpolitica denominata “Mani Pulite”, che con i partiti storici della Prima Repubblica doveva spazzare via anche le loro culture politiche (che sopravvissero come residuali), dette forza e spessore a questa ideologia post-marxista che allontanava gradualmente la sinistra dai ceti più deboli e svantaggiati, e in genere dalla “questione sociale”.

Parallelamente, qualcosa di notevole si mosse però pure a destra con la “discesa in campo” dell’imprenditore brianzolo Silvio Berlusconi, che aveva avuto nel decennio precedente l’indubbio merito di spezzare il monopolio statale dell’informazione televisiva. Nonostante l’adesione a una visione quasi manageriale o aziendalistica della politica, e in questo senso antipolitica, il Cavaliere, come si faceva significativamente chiamare, dette a molti intellettuali l’impressione di una finalmente possibile “rivoluzione liberale” italiana, cioè dette a molti la speranza che anche nel nostro Paese una cultura conservatrice e liberale potesse finalmente svilupparsi. Tanto più che Berlusconi aveva chiamato a collaborare con lui, facendoli eleggere e affidando loro compiti di alta responsabilità, diversi “professori liberali”, molti anche già militanti a sinistra ma che avevano fatto una scelta di abiura integrale del loro passato. Il discorso in cui la “discesa” fu annunciata nel 1994 fu dal punto di vista liberale molto significativo. Intanto, parallelamente all’alleanza con il partito post-missino, veniva anche sdoganata una certa cultura di destra, che pur non potendosi definire assolutamente liberale, era stata ostracizzata nel periodo della precedente “egemonia culturale” nonostante fosse di alto livello. Il terzo asse dell’alleanza berlusconiana fu rappresentato dalla Lega di Umberto Bossi, che, sotto la spinta di colui che fu agli inizi il suo ideologo, Gianfranco Miglio, aveva riportato al centro dell’attenzione un’ideologia, quella federalista, che era stata sempre minoritaria nel nostro Paese. Arrivando a interpretarla persino come secessionismo o forte autonomismo. Una visione dello Stato nazionale che percorse tutti gli anni Novanta, venendo alla fine recepita da un governo di sinistra, quello di Massimo D’Alema, addirittura nella Costituzione, il cui titolo V, tra il 1998 e il 2001, fu completamente rivisto. Nell’ultimo decennio del secolo scorso le vecchie culture politiche erano diventate, come ho detto, minoritarie, fondendosi in una più generale, e plurale, koyné di destra o di sinistra, che lasciava intravedere (in verità l’amalgama non fu mai veramente tale) una sorta di bipolarismo ideologico all’italiana. Mentre però la vecchia sinistra, senza rinunciare a certi suoi anacronistici e poco “liberali” caratteri di fondo (la faziosità, il manicheismo, il doppiopesismo, la delegittimazione morale dell’avversario), era riuscita in qualche modo a sintonizzarsi sui nuovi tempi, il Partito cattolico era del tutto imploso. La sua storica divisione fra democratici e liberali, progressisti e conservatori, ovvero dossettiani e degasperiani, si riprodusse nelle nuove appartenenze di campo che la politica bipolare imponeva. La stessa sorte toccò ai partiti laici minori e agli stessi socialisti.

CRISI DEL GLOBALISMO, LA REAZIONE POPULISTA E SOVRANISTA

Questo quadro andò modificandosi in modo graduale, ma sempre più intenso, con l’emersione, dopo la crisi economica del 2007-2008, dei partiti che furono detti “populisti”. Il primo e più eclatante caso fu quello dei Cinque Stelle, un Movimento che tendeva a definirsi un non partito, sia per organizzazione sia per ideologia. L’organizzazione avrebbe voluto essere, secondo i due fondatori, l’imprenditore informatico Gianroberto Casaleggio e il noto comico Beppe Grillo, completamente orizzontale e non verticistica: sfruttando al massimo le nuove tecnologie informatiche, le varie decisioni e politiche sarebbero sorte e sarebbero state messe ai voti su una piattaforma chiamata significativamente “Rousseau”. Va dato atto ai Cinque Stelle di aver intuito il ruolo destrutturante che le tecnologie informatiche avrebbero avuto sulla politica tradizionale e di conseguenza di aver colto il tratto distintivo dei nostri tempi, la crisi della democrazia rappresentativa. I limiti della loro risposta erano però evidenti sin dalle origini.
A quella crisi non si può infatti far fronte con un ritorno alle vecchie e illiberali pratiche della “democrazia diretta” e dell’“uno vale uno”, certamente facilitate dal web. Come già aveva messo in evidenza la critica liberale al rousseuvismo, il rischio della democrazia diretta è, nel migliore dei casi, che dei gruppi di vertice in seno all’organizzazione si creino di fatto (cosa che puntualmente è accaduta quando il movimento ha assunto responsabilità politiche e addirittura governative), e, nel peggiore, che si minino pericolosamente le libertà fondamentali degli individui. Dall’impostazione originaria data dai Fondatori il movimento era teso a superare la classica distinzione fra destra e sinistra, con un’insistenza sui problemi concreti (le singole issues) in un’ottica trasversale e post-ideologica (che spesso, come accade in questi casi, si è unita a una dose non irrilevante di opportunismo politico). Anche se poi una parte non indifferente del movimento era composta da elettori di sinistra disillusi, spesse volte apologeti del giustizialismo, e da cultori della retorica dell’“anticasta” e dell’“antipolitica”.
In poche parole, il grillismo si fece catalizzatore di un generale sentimento antipolitico che serpeggiava in Italia da tempo e che si era già espresso, a sinistra, in movimenti tipo “il popolo viola” e i “girotondi” (un sentimento che in qualche modo era stato interpretato anche a destra da Forza Italia, che si era presentata come un partito basato su logiche manageriali o aziendalistiche). Le cose erano però costrette a cambiare anche a destra, qui per l’inaspettata evoluzione (in verità una vera e propria frattura) della Lega dal federalismo a quello che è stato poi chiamato “sovranismo” (un aspetto ben presente fra l’altro anche nei Cinque Stelle). In verità, in questo caso non ci troviamo di fronte ad altro che al revival del vecchio nazionalismo, interpretato però in una chiave postmoderna, e quindi come protezione e sicurezza, sia economica sia fisica dei più “deboli”. Anche questa trasformazione si muove perciò lungo un sentiero post-ideologico, unendo ricette di “destra” e “sinistra”, critica gli strumenti classici della rappresentanza politica, e soprattutto va a farsi portavoce di quegli interessi dei ceti inferiori che non erano più rappresentati da una sinistra borghesizzata. Interessi che la crisi economica rende sempre più cogenti.
Si tratta di un fenomeno mondiale che trova nel 2016 con il voto che porta fuori il Regno Unito dall’Europa (Brexit), prima, e con la vittoria alle elezioni americane di Donald Trump poi (all’insegna del motto America first), il suo punto di massima. Fra i paesi continentali europei, è in Italia che le nuove forze si mettono alla prova. Sotto la spinta dei risultati elettorali delle politiche del 2018, leghisti e grillini, che pure partivano da posizioni alternative, trovano un accordo “contrattuale” per formare un governo che diviene una specie di esperimento o laboratorio politico a livello mondiale. Per la prima volta, la base dell’accordo si muove lungo un asse diverso da quello destra vs sinistra, che sostituisce in qualche modo con quello la politica classica e ideologia globalista vs forze populiste.
Il vecchio éstablishment o le vecchie élite, in concreto, pur facendo resistenza, devono far sempre più posto a forze politiche che le contestano apertamente in nome del “popolo”. In soldoni, a una élite fondata su una ideologia globalista e cosmopolita se ne oppone una in via di formazione “populista” e “sovranista”. Fra l’altro, queste forze esprimono, oltre ad un disagio reale presente nella società, soprattutto fra i ceti più deboli, e mal interpretato o ignorato dai ceti dirigenti classici, chiusisi in un mondo loro e autoreferenziale, un ritorno della politica. La quale, negli anni d’oro della globalizzazione (1989-2007), che in Italia coincidono con quella che viene definita “Seconda Repubblica”, è stata messa da parte per il predominio di un’ideologia, quella globalista, che tende per sua natura a neutralizzare il conflitto in regole e procedure “disciplinanti” di tipo economico, da una parte, ed etico-giuridico, dall’altra. In ogni caso, le contraddizioni del governo giallorosso vennero presto fuori e il governo cadde in parlamento nell’agosto 2019. L’amalgama non riuscì anche perché la stessa ideologia “populista” e “globalista” si presenta spesse volte confusa e contraddittoria, non ancora sviluppata coerentemente o matura.
Quindi, ci si trova di fronte oggi a una situazione paradossale, o semplicemente di transizione, in cui la vecchia cultura politica globalista mostra di non essere adeguata più ai tempi e quella in senso lato “populista” non è ancora sufficientemente matura o sviluppata. Se qualcuno avesse potuto pensare mai che la spinta propulsiva delle forze populiste e sovraniste potesse essere riassorbita in qualche modo dal vecchio establishment, alla luce del Covid-19 dovrà forse ricredersi.
L’ideologia globalista sembra essere giunta a un punto di non ritorno. I tempi affretteranno forse, anche in Italia, nuove sintesi.
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