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Meritocrazia

Il Censis, l’uomo forte e il tartufismo intellettuale. Il commento di Polillo

Il commento di Gianfranco Polillo sull'ultimo rapporto Censis

 

I timori del Censis che guarda, con disincanto, alla realtà del Paese. “È quasi il ritorno ad un’Italia post unitaria – si legge nel Rapporto – quando la politica era riservata ai benestanti, agli antipodi dell’alta intensità ideologica del dopoguerra che vedeva invece come protagonisti proprio i soggetti meno abbienti”.

Una regressione che motiva le speranze riposte nella ricerca di un “uomo forte” (48 per cento degli intervistati, ma con percentuali ancora più alte, man mano che si scende lungo i rami della redistribuzione del reddito), che sia finalmente in grado di fare uscire la Nazione da una palude, grande come un oceano. A metà degli anni ’80, quando Bettino Craxi era al Governo, si discusse a lungo se l’Italia avesse superato o meno l’Inghilterra, in termini di Pil.

Oggi si guarda con apprensione alla Turchia ed all’Argentina. Chissà se anche loro non riusciranno a far meglio della seconda potenza industriale dell’Unione europea. Costringendo, ancora una volta, l’Italia ad indossare quella maglia nera, che è la sola veste portata fin dal 1995.

L’idea di un “uomo forte” è solo una metafora. L’Italia ha bisogno di decisioni. Un risultato possibile anche in un regime democratico. Gli altri, più o meno, ci riescono. Con crescenti difficoltà, come mostrano le provocazioni di Vladimir Putin, nel rivendicare i meriti dei regimi illiberali. Ma in nessun caso la paralisi operativa ha la dimensione, che ha assunto nel nostro Paese.

Ed ecco allora che il richiamo storico del Censis all’Italietta che fu, ha un preciso significato. Sconcerta solo il fatto che a preoccuparsi non siano le classi dirigenti. Soprattutto i politici, ma coloro che vivono del proprio lavoro. E solo per questo abitano i piani più bassi dell’articolazione sociale. Ma la spiegazione è semplice. La globalizzazione, con tutte le sue contraddizioni, non è la notte in cui tutti i gatti sono bigi. Per l’upper class è ancora occasione di benessere, non solo economico.

L’analisi storica, se vuole essere veritiera, non ammette paraocchi ideologici. L’Italia post unitaria crollò per le sue interne contraddizioni. Vi fu lotta violenta all’interno dell’establishment – basti pensare al duro contrasto tra Crispi e Giolitti – mentre scoppiava lo scandalo della Banca Romana. Poi la Grande guerra e le promesse non mantenute per coloro che ritornavano dai fronti insanguinati. Quindi la conferenza di pace di Parigi, in cui la diplomazia italiana non riuscì a contrastare, con efficacia, le posizioni dei propri alleati. Le tesi sulla “vittoria mutilata” saranno state pure un mito, come scriverà Gaetano Salvemini. Ma esprimevano comunque un senso di frustrazione nazionale. E poi, ancora, il “biennio rosso”. Volere i “soviet” di Lenin, ma essere incapaci di trasformare il ribellismo violento delle masse subalterne in una realistica prospettiva politica.

L’avvento di Benito Mussolini fu la conseguenza di tutto ciò. Quelle vecchie strutture politiche, consunte dalla loro inadeguatezza storica, portarono alla costituzione di “un sistema reazionario di massa” (Togliatti) che ne rappresentò – checché se ne dica – il loro superamento storico. Determinando la modernizzazione, seppure passiva, dell’Italia. Al punto che molte delle istituzioni allora create – dal welfare, all’organizzazione politica, dal controllo del sistema economico (nascita dell’Iri), alla consacrazione della Banca d’Italia come perno del sistema finanziario – sopravvissero ben oltre la caduta del regime.

Se si hanno chiari questi passaggi, l’accostamento del Censis risulta, al tempo stesso, inquietante ma, in qualche modo, profetico. Sulle divisioni, all’interno del perimetro della politica, non vale la pena dilungarsi. Come pure sulla loro inconcludenza. Basti pensare al numero dei vertici di governo, calcolati Lorenzo Salvia su Il Corriere della Sera: 24 in 100 giorni, uno ogni quattro giorni, senza contare i 15 consigli dei ministri. Ed i continui loro rimandi: “salvo intese”. Ma c’è tutto il contesto che richiama alla mente quelle pagine di storia. L’incapacità di un’interlocuzione forte con l’Unione europea. Non l’Italexit, ma nemmeno il semplice accomodarsi alle decisioni altrui. Leggi Mes. Quindi il velleitario progetto di cambiamento, su cui i 5 stelle hanno canalizzato la rabbia popolare. Per poi abortire nello spazio di qualche mese. Infine i giochi di palazzo. Maggioranze che cambiano dall’oggi al domani, lasciando in sella lo stesso Presidente del consiglio. Una fattispecie che mancava nel museo degli orrori che, a tratti, ha caratterizzato la storia nazionale.

Difficile dire se tutto ciò faccia da preludio alla rinascita di un “uomo forte”. È, invece, certo che così non si può andare ancora avanti. Per arginare non solo la crisi, ma il crescente “stress sociale” (altro termine del Censis), occorre una maggioranza parlamentare con una propria “visione” condivisa. Non parliamo dei dettagli. Che sia risultata vincente nel confronto elettorale. Durante il quale sia il popolo non solo a scegliere, ma condividere le responsabilità che derivano da quelle scelte.

La vera differenza con i semplici sondaggi. E forse solo allora si potrà nuovamente tentare di costruire. Rovesciando finalmente l’idea che un leader eletto democraticamente, ma non corrispondente ai propri interessi di parte, sia solo un usurpatore, contro il quale condurre una lotta di liberazione nazionale.

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