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Cartabia

Tutti gli effetti politici della mannaia della Corte costituzionale stile Cartabia sul maggioritario

La decisione della Corte costituzionale sul referendum leghista anti proporzionale, le ricadute politiche e considerazioni storiche su partiti e leggi elettorali. I Graffi di Damato

Più che esplosa, la Corte Costituzionale a guida femminile, con Marta Cartabia, è implosa con il suo no al referendum leghista, chiamiamolo pure così, sulla legge elettorale tentato per rendere interamente maggioritario il metodo di elezione del Parlamento, alla maniera inglese.

Dopo avere a lungo, forse troppo a lungo, consentito referendum cosiddetti manipolativi al posto di quelli puramente e semplicemente abrogativi, totali o parziali, previsti dalla Costituzione nell’articolo 75 a carico di “una legge o di un atto avente valore di legge”, i giudici della Palazzo della Consulta si sono di colpo fermati. Essi hanno trovato “eccessivamente manipolativo” questo referendum.

E’ francamente difficile negare il carattere necessariamente più politico che giuridico di una valutazione del grado di manipolazione di una legge sottoposta alla pratica referendaria. Eppure la politica dovrebbe rimanere fuori dalla sala di consiglio dei giudici della Corte Costituzionale. Essa invece vi è entrata spesso, sin dal momento in cui si consentì la prima manipolazione della legge elettorale tagliandone non parti ma particelle, quasi con il bisturi del chirurgo. Dalla prima concessione strappata ai giudici costituzionali l’appetito dei manipolatori referendari è cresciuto a dismisura, sino a mettere in crisi la coscienza, diciamo così, della Corte. Che si è decisa a dire basta. Quando è troppo, è troppo, sembrano avere gridato le eccellenze che siedono nel palazzo dirimpettaio al Quirinale, sede della Presidenza della Repubblica.

Ora i referendari si strappano le vesti e protestano: da Matteo Salvini al suo “esperto” e vice presidente del Senato Roberto Calderoli, e al non leghista ma referendario della prima ora Mario Segni, Mariotto per gli amici, fra i quali chi scrive. Che tuttavia ha dissentito francamente da lui dal primo momento perché convinto che abrogazione e manipolazione fossero, e siano, concetti non complementari ma alternativi, e incompatibili.

Non a caso, del resto, i costituenti avevano deciso di escludere la materia elettorale dai referendum abrogativi con un voto disatteso dal testo costituzionale per un incidente, chiamiamolo così, tecnico-burocratico scoperto da Giulio Andreotti a Palazzo Chigi consultando bene le carte, e cercando di portare la questione all’esame proprio della Corte Costituzionale. Ma ormai era troppo tardi per porvi rimedio. Almeno così ritennero, non so se più rassegnati o convinti, i giudici della Consulta dichiarando l’ammissibilità dei referendum manipolativi promossi da Segni e da Marco Pannella.

Ora che la Corte ha dismesso le forbici dei referendari, e dovrebbe cominciare ad interrogarsi anche su quelle ch’essa stessa ha adoperato dichiarando l’illegittimità di parti delle leggi elettorali arrivate al suo esame, il terreno politico e parlamentare sembra spianato alla maggioranza giallorossa, o alle sue componenti più convinte della opportunità di ripristinare il sistema elettorale proporzionale, persino quella di Matteo Renzi, magari corretto con l’introduzione di una cosiddetta soglia di sbarramento. Al di sotto della quale i partiti o liste concorrenti ai seggi parlamentari escono dalla partita con la proclamazione dei risultati elettorali.

Datemi pure dell’ingenuo, ma anche a causa del ben modesti risultati, secondo me, della sperimentazione del sistema maggioritario, che ha consentito sì l’alternanza tra centrodestra e centrosinistra, fra berlusconiani e antiberlusconiani, ma non ha impedito la frantumazione dei partiti e la successione di più governi fra un’elezione e l’altra, non credo che il sistema proporzionale debba fare spavento o inorridire i benpensanti. Che temono i governi negoziati fra i partiti dopo e non prima delle elezioni, alle spalle – si dice – dei cittadini e delle loro scelte.

Non credo a questa demonizzazione del sistema proporzionale per una ragione, diciamo così, autobiografica, oltre che logica. Tutte le volte che sono andato a votare durante la cosiddetta e tanto disprezzata prima Repubblica, quando vigeva cioè il sistema proporzionale, ho sempre saputo con chi si sarebbe poi alleato, per governare o stare all’opposizione, il partito via via scelto nelle urne. E ciò perché tutte, ma proprio tutte le formazioni politiche, chi più e chi meno, avevano le loro linee ben precise, adottate dai competenti organismi. Ricordo, fra l’altro, il congresso nazionale cui ricorse la Dc nel 1962 a Napoli prima di imboccare le ultime curve della corsa al centro-sinistra con Moro segretario del partito, ma con Amintore Fanfani che ne aveva già sperimentato assaggi parlamentari e governativi. Si votò l’anno dopo e nacque, dopo i bagni di un governo Leone, il primo quadripartito “organico” di centro-sinistra presieduto dallo stesso Moro.

L’unica volta che i risultati elettorali furono tali da sorprendere gli elettori e da non produrre una maggioranza predefinita fu quella del 1976, con i “due vincitori”, come Moro chiamò la sua Dc e il Pci di Enrico Berlinguer, costretti dalle circostanze ad accordarsi temporaneamente ed eccezionalmente all’insegna della “solidarietà nazionale”.

L’ultima volta che gli elettori votarono col sistema proporzionale, nel 1992, democristiani e socialisti erano andati chiaramente alle urne col proposito di rinnovare la loro alleanza di governo. Che poi saltò non per ragioni politiche ma per gli effetti e i risvolti partitici delle inchieste giudiziarie sulla diffusissima e notissima pratica del finanziamento illegale della politica.

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