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Tutti gli obiettivi dei Nove con la difesa comune europea

L’approfondimento di Enrico Martial sull’accordo di nove Paesi per una difesa comune europea L’Italia non partecipa al nuovo processo d’integrazione in materia di sicurezza e difesa, che coinvolge nove Paesi europei: Germania, Francia, Belgio, Regno Unito, Danimarca, Paesi Bassi, Estonia, Spagna e Portogallo. Le perplessità italiane alla lettera di intenti firmata il 25 giugno a…

L’Italia non partecipa al nuovo processo d’integrazione in materia di sicurezza e difesa, che coinvolge nove Paesi europei: Germania, Francia, Belgio, Regno Unito, Danimarca, Paesi Bassi, Estonia, Spagna e Portogallo. Le perplessità italiane alla lettera di intenti firmata il 25 giugno a Lussemburgo sono varie: è un meccanismo fuori dalla NATO, fuori dall’Unione europea, fuori dalla PESCO – la cooperazione strutturata in materia di difesa. Per i commenti più facili, è un’iniziativa della Francia e quindi da scartare a prescindere.

E’ una fuga in avanti?

L’Iniziativa Europea di Difesa (European Intervention Initiative, in sigla “EI2”) è stata discussa e ridiscussa per il solito tempo lento e infinito, almeno dal discorso di Macron alla Sorbona del 27 settembre 2017. Trova riferimento nel Framework Nation Concept (FNC) perché già la NATO ha ritenuto che ci si possa aggregare per Paesi, in funzione dei bisogni specifici da raggiungere di sicurezza e di difesa. E’ collegata alla PESCO: la cooperazione strutturata serve per la “capacità” (interoperabilità dei mezzi, prodotti uguali, Schengen militare), la European Intervention Initiative serve per l’operatività, per andare nel luogo giusto e per fare quello che serve.

Non è una fuga in avanti: sempre il 25 giugno, Federica Mogherini, alta rappresentante dell’UE ha pazientemente spiegato che è un contributo alla PESCO e non è duplicazione, il segretario della Nato Jens Stoltenberg lo ha descritto come un esercizio utile a migliorare forza e rapidità di reazione.

E’ una forza armata?

Infatti non è un battaglione o un esercito comune, quella è roba NATO. E’ piuttosto un modo per capirsi quando si interviene insieme, un “forum” in cui condividere visione strategica, sapere, elaborazione. Un modo di ulteriore integrazione a approfondimento rispetto agli scambi che sono già in corso in ambiti Nato oppure UE. I settori sono quattro: previsione strategica e condivisione dell’intelligence, sviluppo di scenari, supporto alle operazioni e infine “lezioni apprese” e dottrina.

Anche fuori dal linguaggio militare, si capisce che occorre avere facilità e rapidità nel capirsi sul senso, obiettivi e modalità di ogni operazione. Immaginate per esempio i 50 militari inviati dall’Estonia, a marzo 2018 a supporto dell’operazione francese Barkhane in Mali, provvisti o meno di una condivisione di contenuti, strategia, modalità.
Funziona semplicemente aprendo gli eserciti alla discussione e allo scambio e non soltanto a livello di ufficiali di collegamento. Ogni Paese resta se stesso, ma più scambi facilitano la comprensione e l’intesa: prima, durante e dopo l’intervento.

Quali sono i vantaggi

Sganciata dai meccanismi istituzionali, la EI2 è più facile da gestire. E’ utile alla NATO e alla UE, perché si realizzano attività migliorative per gruppi di Paesi. E’ utile negli interventi di qualsiasi formato (ONU, UE, nazionali, anche civili) perché rende routinari l’approccio strategico, la conoscenza reciproca e familiarità, anche sul campo. Non soggiace ai vincoli istituzionali, vi partecipano il Regno Unito malgrado la Brexit e la Danimarca malgrado l’opt-out dai Trattati UE su sicurezza e difesa. Ci si unisce secondo i bisogni, le volontà e i mezzi.

Cosa c’è di strategico

Se non vi è nulla di straordinario, nell’ Iniziativa europea di Intervento c’è tuttavia un disegno.

Il punto è che “non si può far da soli”. Lo riconosce la stessa Francia, che dal 2012 è impegnata (o invischiata) in Mali e nell’insieme degli Stati sub-sahariani con le operazioni Serval e Barkhane. A est e nel sud est europeo è altrettanto evidente. Il coinvolgimento di più Paesi è necessario, e di qui il caso dell’allargamento – in senso europeo – a Germania o all’Italia (in Niger), ma anche all’Estonia, che voleva ricambiare l’impegno francese in difesa dei Paesi baltici.

Sono infatti tutti d’accordo: il 25 giugno a Lussemburgo i ministri degli esteri dell’Unione – compresa l’Italia – hanno infatti adottato senza discussione le linee per il G5 Sahel (Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania, Niger) dove ci sono anche tre missioni UE (EUCAP Sahel Mali, EUTM Mali, EUCAP Sahel Niger) e una dell’ONU, MINUSMA.
Certamente non è tutto facile, diversi ambiti non costituiscono ancora patrimonio comune. Per esempio, a quanto si intende, per l’Italia non può esserci visione condivisa ma soltanto approccio nazionale sul modo di intervenire, nel Sahel e nel sud della Libia, sulla piattaforma del malaffare da cui passano migranti, armi e droga.

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