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Giorgetti

Conte e Draghi saranno condannati a convivere?

Fatti, ipotesi e scenari su Conte e Draghi. I Graffi di Damato

Sopraffatte mediaticamente dalla conferenza stampa a Palazzo Chigi, sono passate inosservate alcune considerazioni fatte dal presidente del Consiglio in un’intervista televisiva a un canale privato non dico minore, per carità, ma non certo fra i più seguiti. In cui l’informazione è generalmente affidata ai giornalisti di una testata fra le più rispettose verso Giuseppe Conte, regalato secondo loro al Paese quasi dalla Divina Provvidenza.

In questa intervista, già pensando forse alla “fase 2” poi accennata in conferenza stampa in riferimento però agli sviluppi dell’emergenza, quando questa diminuirà d’intensità ma ci obbligherà lo stesso a “convivere” col coronavirus, Conte ha detto — bontà sua — di non ritenere di “dover rimanere seduto su questa poltrona vita natural durante”. Gli basta “l’orizzonte di una legislatura”: questa uscita dalle urne del 2018 e ormai a rischio sempre più decrescente di fine prematura. In questi tempi di possibili contagi in fila davanti alle urne, si tende più a rinviare che ad anticipare le elezioni. Per adesso è già toccato al referendum confermativo sulla riduzione dei seggi parlamentari, spostato dal 29 marzo a data ancora da stabilire. Ma potrebbe accadere anche per il rinnovo dei consigli regionali in scadenza in questa primavera.

L’orizzonte della legislatura in corso non è cosa di poco conto per una maggioranza così composita, a dir poco, come quella improvvisata nella scorsa estate fra grillini e sinistra pur di evitare, con le elezioni anticipate reclamate dall’allora ministro uscente dell’Interno, una vittoria del centrodestra a trazione leghista data per scontata da tutti. È una maggioranza non sufficientemente o sinceramente aperta all’opposizione, come reclamato invece dal capo dello Stato nelle condizioni di emergenza sanitaria, economica e sociale in cui è finito il Paese, e viziata da tensioni che sfuggono ogni tanto allo sforzo di Conte di contenerle o nasconderle.

È appena accaduto, per esempio, che il pur non più capo del maggiore partito della coalizione Luigi Di Maio, e neppure capo della relativa delegazione al governo, ha trovato il tempo, la voglia, il bisogno di bollare pubblicamente come “indecente” — ripeto, indecente — il rifinanziamento pubblico di Radio Radicale appena passato in Parlamento  per iniziativa del Pd e con l’appoggio del centrodestra. Il segretario piddino Nicola Zingaretti, Dario Franceschini, Roberto Gualtieri, lo stesso Conte hanno fatto finta di non sentire e non capire, ma l’insulto è rimasto agli atti mediatici.

Non parliamo poi della spina nel fianco rappresentato nella maggioranza dalla ostilità di principio dei grillini al cosiddetto fondo europeo salva-Stati, in sintonia col sovranismo degli ex alleati leghisti e dei fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, convinta — come ha recentemente gridato alla Camera — che quel meccanismo finanziario serva solo a tedeschi e affini ad approfittare dell’emergenza virale per “rovistare fra le macerie e fregarsi la nostra argenteria”.

Nel momento in cui si gioca su questo terreno il futuro non solo dell’Italia ma di tutta l’Unione Europea, la cui bandiera è per fortuna rimasta sullo sfondo delle conferenze stampa a Palazzo Chigi anche dopo che Conte in video-vertice con i suoi omologhi continentali ha minacciato come un sovranista qualsiasi di “poter fare anche da solo”, non mi sembra francamente che l’attuale governo sia il più adatto a gestire un passaggio che può ben definirsi drammatico. E ciò non solo perché,  come ha scritto qualche giorno fa Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore, “non si può chiedere unità e solidarietà a livello europeo e rifiutare di unirsi a livello nazionale per condividere la responsabilità e i rischi legati alle difficili decisioni che prima o poi dovranno essere presi”:  ben al di là dei passeggini, passeggiate e altro delle ordinanze che vengono scritte al Viminale a quattro mani dal ministro dell’Interno e dal capo della Polizia, fra gli sberleffi dei vignettisti sui giornali.

Per confrontarsi, a dir poco, con la Merkel e i falchi più o meno baltici, convincendoli o addirittura rompendo, l’autorevolezza di Conte — lo dico sul piano naturalmente politico, con quel partito che lo ha designato a Palazzo Chigi perdendo in meno di due anni metà del proprio elettorato — impallidisce di fronte a quella, per esempio, dell’ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi. Che in un “governissimo”, come si è soliti chiamarne uno di vera e propria unità nazionale, simile a quelli realizzati da Alcide De Gasperi in Italia dopo e davanti alle macerie della seconda guerra mondiale, Conte potrebbe ben figurare come ministro degli Esteri, mettendo a frutto le relazioni internazionali che ha saputo coltivare da Palazzo Chigi, meglio certamente di Di Maio dalla Farnesina. Al Quirinale credo proprio che non ne vedano l’ora.

 

Articolo pubblicato sul Dubbio

 

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