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Come reagirà il Nord con un governo Grillo-Zingaretti?

Un esecutivo sostenuto da Pd e 5 Stelle rappresenterebbero una sola parte dell’Italia, minoritaria, e poco connessa con la parte più all’avanguardia del Paese: il Nord. L'intervento di Daniele Meloni

 

L’esito della crisi di governo è tutt’altro che scontato, ma la possibilità che Pd e Movimento 5 Stelle formino un nuovo esecutivo cresce man mano che si delineano le forze e gli interessi in campo. Matteo Renzi si è ripreso il partito, e ieri in Senato ha dato la percezione di essere stato lui il capo dell’opposizione al governo del cambiamento, ponendosi sullo stesso piano di Salvini e Conte e lasciando Nicola Zingaretti in una lose-lose position: se va al voto e perde he’s toast, come dicono gli inglesi. È finito. Se fa nascere un nuovo governo alleandosi con i pentastellati ha perso il partito. Per i 5 Stelle la necessità di formare un nuovo governo è dato dall’irripetibile numero di parlamentari – 32% – che ha in questo momento nelle due camere e che, quasi certamente, non confermerebbe in caso di voto anticipato. Sullo sfondo, la vera questione della legislatura: l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica che nel 2022 sostituirà Sergio Mattarella. Un Presidente che nelle intenzioni dell’establishment non dovrà essere espressione di una maggioranza di destra ma un erede del CLN antifascista che ha scritto la Costituzione – tramite l’Assemblea Costituente – o una “riserva della Repubblica”.

Il percorso appare tortuoso ma segnato. Ma un governo così composto potrà governare? Difficile. Pd e 5 Stelle rappresenterebbero una sola parte dell’Italia, minoritaria, e poco connessa con la parte più all’avanguardia del Paese: il Nord. I democratici hanno un problema storico nel rivolgersi alle piccole e medie imprese della Lombardia e del Veneto – a proposito: perché non rispolverare il PD del Nord proposto anni fa da Cacciari? – mentre i 5 Stelle hanno ereditato le clientele del sud dei partiti centristi e post-fascisti e vorrebbero fare altrettanto con i ceti burocratici dello Stato, trasformandoli nelle loro classi dirigenti nei ministeri, nelle agenzie e nelle authority.

Di politici che parlano all’imprenditore del nord, alle partite Iva, a una società che per tessuto sociale e produttivo assomiglia più alle regioni aldilà delle Alpi che non a quelle che costeggiano il Mediterraneo non se ne vedono proprio all’interno dei due partiti, escluso Beppe Sala che, comunque, rappresenta l’unica realtà metropolitana italiana e non le province lombarde e venete.

Il balletto sull’autonomia delle due Regioni Locomotiva del Paese ha svelato come ci sia ancora chi voglia mettere i bastoni tra le ruote a un processo assolutamente democratico, suggellato dal referendum del 22 ottobre 2016 e incardinato nelle leggi dello Stato italiano con una procedura prevista dalla Costituzione dal 2001. Lombardia e Veneto fanno le cose meglio degli altri e reclamano più autonomia e la possibilità di distribuire migliori servizi per i loro cittadini siano essi nativi o immigrati dal sud o dall’estero.

La sensazione è che dopo avere celebrato la sconfitta di Salvini, ai piani alti della nostra Repubblica si sia drammaticamente sottovalutata la possibilità che esso, buttato fuori dalla porta, ritorni dalla finestra. E magari sfondandola. È vero, la Lega non è più identificabile come partito nordista ma come partito nazionalista. Ma il core business della sua attività amministrativa e di gestione del potere rimane in Veneto e soprattutto in Lombardia dove ha ottenuto percentuali bulgari alle ultime elezioni europee. Un governo antinordista potrebbe portare ancora più acqua al mulino di Salvini che approfitterebbe anche del perenne sentimento antigovernista del sud per drenare consensi ai 5 Stelle. Nonostante in molti nelle grandi associazioni confindustriali del nord abbiano storto il naso per le politiche economiche del governo gialloverde, la Lega rimane a detta di molti l’unico interlocutore possibile e credibile perché vengano portati avanti gli interessi delle imprese e dei lavoratori lombardi e veneti.

Le differenze tra nord e sud sono destinate ad acuirsi con il nuovo governo, e, forse, anche senza. Un ritorno di una lega nordista è difficile da prevedere anche se, come detto, il nocciolo duro del partito, la sua classe dirigente sta al nord. Forse la Lega rimarcherà ancora di più il suo essere “sindacato del territorio” ricordando le sue battaglie storiche per l’indipendenza della Padania, la devolution, la rivolta fiscale. Anni fa prima di candidarsi alla presidenza della regione Lombardia, Roberto Maroni ipotizzò un futuro del centrodestra sul modello tedesco nel suo libro “Il mio Nord”: la Lega avrebbe dovuto essere la Csu al nord di un partito liberalpopolare sul modello della Cdu merkeliana (e prima ancora kohliana). Questo succedeva quando Forza Italia aveva il 25/30% e la Lega il 4. Lo stesso Salvini ha fatto della rivendicazione dell’autonomia leghista (direi “craxianamente” anche se non so se al leader leghista possa far piacere il paragone) e dell’abbandono del centro-destra il mantra del successo della sua ascesa. Ma la Questione Settentrionale è sempre lì, destinata a riproporsi a breve. Anzi, si è già riproposta.

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