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America

La guerra commerciale Usa-Cina, gli scenari e i potenziali compromessi

La Trans Pacific Partnership (Tpp) in un’ottica di Trumponomics. La seconda puntata del focus dell’analista Fabio Vanorio, blogger di Start Magazine Abbiamo concluso il precedente post valutando, nel contesto specifico utilizzato nel post, l’attuale strategia di Pechino nello scontro commerciale con Washington più “tattica” che “aggressiva”. La contenuta ritorsione alla decisione di Washington di introdurre…

Abbiamo concluso il precedente post valutando, nel contesto specifico utilizzato nel post, l’attuale strategia di Pechino nello scontro commerciale con Washington più “tattica” che “aggressiva”. La contenuta ritorsione alla decisione di Washington di introdurre dazi e l’immediata disponibilità a negoziare ne rappresentano la dimostrazione.

La soluzione bilaterale dei problemi attualmente sul tavolo con la Cina è suscettibile di determinare forti riverberi sulle scelte multilaterali di Washington. Il meeting appena concluso a Pechino ha avviato un meccanismo di lavoro che proseguirà regolarmente a più bassi livelli. L’avvio di consultazioni che “riequilibrino” il rapporto tra Stati Uniti e Cina ha visto l’iniziale incrociarsi di due delegazioni ad altissimo livello, la cinese guidata da Liu He, economista formato ad Harvard, attuale Vice Primo Ministro e Consigliere economico del Presidente Xi Jinping, e la statunitense composta da tutti i principali consiglieri del Presidente Trump in materia (Robert Lighthizer -U.S. Trade Representative (USTR)-, Steven Mnuchin -Segretario al Tesoro-, Wilbur Ross -Segretario al Commercio-, Peter Navarro -Consigliere della Casa Bianca in materia commerciale- e Larry Kudlow -Direttore del National Economic Council-).

Gli argomenti posti sul tavolo hanno riguardato i temi sui quali vi è disaccordo tra i due paesi, quali:

  1. Disavanzo commerciale bilaterale

Nel 2017, la differenza in beni e servizi ha toccato i 337 miliardi di dollari, rappresentando oltre la metà del disavanzo comerciale statunitense. Nel primo trimester 2018, il disavanzo commerciale è cresciuto ulteriormente del 16% per un ammontare superiore a 91 miliardi di dollari. La richiesta di Trump a Xi è la riduzione del divario commerciale a 100 miliardi di dollari entro il 2020, nonché un impegno formale da parte di Pechino a non ostacolare le produzioni agricole statunitensi. Quest’ultima necessità espressa da Washington è indispensabile in vista delle prossime MidTerms di Novembre 2018 essendo il settore agricolo, sensibile al commercio internazionale, una componente fondamentale della base del partito Repubblicano. La reazione di Pechino alla decisione dei dazi statunitensi è andata a colpire, infatti, proprio i beni agricoli (insieme al settore auto e aeronautico).

  1. Tecnologia

Il principale motivo di frizione è rappresentato dal Piano governativo “Made in China 2025”, che si pone come obiettivo rendere la Cina leader tecnologico globale in tutti i settori principali (tra i quali spiccano intelligenza artificiale, robotica, aerospazio, cloud computing, semiconduttori, cervelli di silicio, componentistica hardware, veicoli ad alimentazione alternativa). Il piano implica sovvenzioni alle imprese cinesi e trasferimenti di tecnologia inclusi in joint venture tra aziende straniere e rispettivi partner cinesi. La preoccupazione di Trump è che la crescita tecnologica di Pechino avvenga a spese della Proprietà Intellettuale statunitense. Per questo motivo, nel 2017 Trump ha chiesto all’USTR Robert Lighthizer di avviare un’indagine sul trattamento cinese in materia che si è conclusa con un documento di 215 pagine nel quale Lighthizer ha evidenziato l’esistenza di diverse modalità di violazione da parte della Cina, suggerendo l’applicazione dei dazi compensativi.

  1. Sovracapacità nel settore dell’Acciaio

Nel 2017, secondo la World Steel Association la Cina, maggiore produttore mondiale di acciaio, ha messo sul mercato 832 milioni di tonnellate, consumandone 737 milioni di tonnellate. Tale divario è maggiore della produzione combinata di acciaio di Germania e Francia. Attualmente, la misura di contenimento adottata dall’Amministrazione Trump si è concretizzata nell’applicazione di dazi del 25% sulle importazioni statunitensi di acciaio e del 10% sulle importazioni di alluminio imposti per motivi di sicurezza nazionale.

  1. Parita’ di Trattamento

Gli Stati Uniti sostengono l’assenza di condizioni di parità di trattamento tra aziende americane e controparti cinesi, sia nel commercio (se la Cina riscuote un dazio del 25% sulle autovetture, gli Stati Uniti si limitano ad un dazio del 2,5% sulle auto importate) che negli investimenti (la Cina approva investimenti statunitensi su richiesta specifica. Gli USA chiedono che si introduca una liberalizzazione, escludendo gli usuali settori sensibili, come la difesa, da inserire in una apposita “black list” da comunicare a Washington entro il 1° Luglio prossimo).

Quando presente, l’adozione di comportamenti non aggressivi da parte di Pechino non è riconducibile ad una sottomissione a Washington bensì ad una strategia di ambiguità che cela l’affidamento di Pechino a componenti esogene alla relazione commerciale per compensare l’effetto negativo della decisione dei dazi statunitensi. Nel caso in specie Pechino potrebbe optare per due soluzioni compensative:

  • l’adesione ad accordi commerciali coinvolgenti la Cina e all’interno dei quali non siano presenti gli Stati Uniti.

Accordi di questo tipo possono essere il Boao Forum for Asia (BFA), la Belt and Road Initiative (BRI), oppure l’“Accordo Globale e Progressista di Partenariato Trans-Pacifico” (CPTPP, versione aggiornata del precedente Partenariato Trans-Pacifico o Trans-Pacific Partnership, TPP). In tal modo, Pechino compenserebbe la riduzione del proprio profitto nella relazione bilaterale con Washington (causata dai dazi) con un aumento dello stesso ottenuto inducendo i membri dell’iniziativa multilaterale scelta da Pechino (BFA, BRI o TPP) a riallocare i propri scambi commerciali da una base bilaterale con Washington ad una multilaterale con la Cina.

  • un’azione di manipolazione valutaria mediante opportune svalutazioni del Renmimbi tali da mantenere elevato il profitto commerciale per Pechino.

Le attività di manipolazione valutaria includono la vendita di quantità (superiori al necessario) del RMB e l’acquisto di riserve (superiori al necessario) in valuta estera. Come si vede nel grafico, il concetto di “superiore al necessario” consta nell’ammontare che crea una differenza tra il tasso di cambio effettivo ed il tasso di equilibrio. Stabilire adeguati controlli di manipolazione valutaria pratici e attuabili è, dunque, estremamente difficile in quanto è difficile distinguere tra “manipolazione valutaria intenzionale” e semplice fluttuazione indiretta del cambio derivante da legittime decisioni di politica monetaria interna. Attualmente, il Fondo Monetario Internazionale proibisce manipolazioni che non affrontino uno “squilibrio fondamentale” nei tassi di cambio. In realtà è una questione di lana caprina poichè determinare se una politica di intervento valutario corregge un tale “squilibrio” è resa difficile a causa dell’incapacità degli economisti di fissare il tasso di cambio di equilibrio.

Formalmente, per identificare una manipolazione valutaria il Dipartimento del Tesoro statunitense adotta i termini previsti nella Sezione 3004 dell’Omnibus Trade and Competitiveness Act of 1988 (c.d. “1988 Act”). Ma l’accusa è spesso presente nella mera retorica politica e Trump ne è stato spesso utilizzatore. Dapprima nel 2013 quando da normale cittadino espresse il suo punto di vista su Twitter, poi nel 2015 in un suo editoriale sul Wall Street Journal dove promise (in maniera lungimirante) che in un’eventuale “primo giorno di un’amministrazione Trump, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti identificherebbe subito la Cina come un manipolatore di valuta. In campagna elettorale nel suo contratto con l’elettore statunitense, Trump diede ulteriormente corpo al suo impegno dichiarando che, una volta Presidente, avrebbe richiesto, tra i suoi primi atti, al Segretario del Tesoro di “segnalare la Cina come Paese manipolatore di valuta”.

Nel pieno rispetto della sua politica di disorientamento, a pochi mesi dalla sua presidenza, Trump ha bruscamente invertito la sua posizione negando, sulla base di evidenze tratte dal cambio, che la Cina stesse effettivamente manipolando la sua valuta, placando i timori di una guerra commerciale.

Il 16 Aprile scorso, con un tweet, Trump ha cambiato nuovamente posizione, contraddicendo un rapporto pubblicato dal Dipartimento del Tesoro statunitense pochi giorni prima secondo il quale, nella seconda metà del 2017, nessuno tra i principali partner commerciali aveva agito in maniera scorretta sul mercato dei cambi.

Il rischio per Washington di pressare eccessivamente su questo aspetto è elevato. Una definizione più restrittiva di manipolazione valutaria, peggio se adottata in qualche sede multilaterale, potrebbe ritorcersi contro gli Stati Uniti impedendo, per esempio, alla Federal Reserve statunitense di utilizzare il Quantitative Easing (QE) per contenere la crescita dei tassi di interesse e ridurre il deficit commerciale. Metodi tradizionali di QE per aumentare la base monetaria della Federal Reserve, come l’acquisto di attività finanziarie da istituzioni private, sono, infatti, simili agli acquisti di asset che alimentano la manipolazione valutaria.

A fronte di una trattativa così complessa come quella bilaterale con Pechino, dunque, l’Amministrazione Trump sta ritenendo opportuno affiancare alla strategia del confronto bilaterale con Pechino anche nuovi fronti multilaterali. In tal senso, si inserisce la decisione (12 aprile scorso) di Trump di fornire mandato a Lighthizer e Kudlow di elaborare scenari per l’adesione ad una nuova versione del TPP.

L’ostacolo, in tal senso, è rappresentato dall’attitudine – da buon dealmaker – di Trump a preferire accordi bilaterali, mostrandosi scettico relativamente all’efficacia ed all’ottenimento del massimo risultato nelle sedi commerciali multilaterali. Questa posizione è stata sostenuta nel gennaio 2018, nel suo discorso al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, laddove Trump ha sì balenato la possibilità di un rientro degli Stati Uniti nel TPP ma solo successivamente a negoziati con gli attuali membri del CPTPP, presi individualmente o come gruppo (“if it is in all of our interests”).

In linea generale, per Washington potrebbe risultare molto più agevole negoziare condizioni reciprocamente favorevoli con Pechino facendo parte di un blocco commerciale regionale (come un nuovo TPP) che cercare un consenso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), o cercare di convincere gli altri attraverso una serie di accordi bilaterali.

Facciamo un passo indietro e riepiloghiamo cosa sta accadendo nell’ambito del Partenariato Trans-Pacifico. Nel Febbraio 2016, dodici Paesi che costeggiano l’Oceano Pacifico (Stati Uniti, Giappone, Malaysia, Vietnam, Singapore, Brunei, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Messico, Cile e Peru) hanno aderito al Partenariato Trans-Pacifico (Trans-Pacific Partnership, TPP) creando un’area pari a circa il 40% della produzione economica mondiale.

Nel Gennaio 2017, il Presidente Trump firma un Executive Order nella sua prima settimana alla Casa Bianca con il quale ritira gli Stati Uniti dal TPP. Questa decisione non era inattesa. Trump ha sempre definito l’accordo TPP come il peggiore della storia, impegnandosi a ritirare gli Stati Uniti da questo già durante la campagna elettorale presidenziale. Anche prima del ritiro ufficiale firmato da Trump, comunque, nonostante l’adesione garantita dal precedente Presidente Obama poco prima di lasciare la Casa Bianca, la partecipazione degli Stati Uniti all’accordo è stata sempre posta fuori discussione dall’opposizione presente all’interno del Congresso degli Stati Uniti.

Successivamente al ritiro da parte degli Stati Uniti, gli undici Paesi membri restanti (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam, insieme pari ad oltre 500 milioni di persone ed oltre il 13 per cento del PIL globale) negoziano un nuovo accordo, il “Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership” (CPTPP) che viene firmato l’8 Marzo 2018 dopo più di un anno di rinegoziati, pronto ad andare in vigore successivamente alla firma di almeno sei Paesi . Il ritardo nel definire il CPTPP  è addebitabile al fatto che gli undici paesi hanno curato più cosa eliminare che cosa modificare o aggiungere arrivando ad un Partenariato che è più una dichiarazione politica, che un accordo economico.

A questo punto, diversi sono i motivi per cui Washington potrebbe accelerare l’apertura di un negoziato per un nuovo TPP:

  1. La crescente presenza di Pechino in America Latina, ricca di minerali, preoccupa Washington. In tal senso, la condivisione del TPP con Perù e Cile (membri del Partenariato) è vista da Washington come fattore di vantaggio nella relazione bilaterale, controllando questi ultimi gran parte dell’accesso del continente alla costa del Pacifico.
  2. La forte spinta ad una cooperazione anche multilaterale con Washington da parte di importanti firmatari del CPTPP, quali Giappone, Australia e Nuova Zelanda. Dalle visite di stato del Primo Ministro australiano Malcolm Turnbull a Washington e i ripetuti incontri tra lo stesso Trump ed il primo Ministro giapponese Shinzo Abe sono sempre emersi importanti auspici in merito all’incremento della cooperazione commerciale e agli investimenti in ambito multilaterale. Anche il Primo Ministro neozelandese, Jacinda Ardern, ha salutato con favore l’ipotesi di un rientro degli Stati Uniti nel TPP dichiarandosi disponibile a sostenere l’avvio di una revisione del partenariato.

Risolvere gli squilibri nel rapporto bilaterale con la Cina è per l’Amministrazione Trump un percorso lungo, complesso e soprattutto costoso. Anche se la soluzione non è stata ancora prospettata ufficialmente, una ipotesi di membership sia di Washington che di Pechino in un nuovo Partenariato Trans-Pacifico potrebbe essere una soluzione win-win, risultando il miglior modo nel prossimo futuro per alleviare molte preoccupazioni bilaterali senza optare per inutili e dannose conflittualità per entrambi, e convogliando in un nuovo accordo TPP molti progetti (come la Belt and Road Initiative che potrebbe anche essere estesa agli Stati Uniti visti i progetti infrastrutturali dell’Amministrazione Trump) e nodi politici (l’unificazione delle Coree, la soluzione per le Isole Senkaku/Diaoyu, i rapporti con Taiwan, l’emergere di conflittualità tra Cina ed Australia) da condividere in un nuovo blocco regionale.

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Fabio Vanorio è un dirigente del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, dove ha prestato servizio dal 1990. In aspettativa dal 2014, risiede a New York dove ha in corso progetti di ricerca accademica in materia di economia internazionale ed economia della sicurezza nazionale. Si è laureato in Economia a Roma all’Università La Sapienza, dove ha anche conseguito una specializzazione in Economia e Diritto delle Comunità Europee. Ha due Master rispettivamente in Econometria applicata ed in Finanza ed Assicurazione islamica, quest’ultimo conseguito a Londra. Attualmente scrive per l’Hungarian Defense Review e per l’Istituto di Studi Strategici Nicolò Machiavelli.

DISCLAIMER: Tutte le opinioni espresse sono da ricondurre all’autore e non riflettono alcuna posizione ufficiale riconducibile né al Governo italiano, né al Ministero degli Affari Esteri e per la Cooperazione Internazionale.

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