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Banda Ultralarga

Tim, Open Fiber, Enel e Cdp. Come Bassanini, Debenedetti e Gamberale si attorcigliano nella rete a banda ultralarga

Ecco come il futuro delle reti Tim e Open Fiber anima il dibattito tra addetti ai lavori, esperti ed ex manager Telecom Italia

Il dibattito tra esperti sul futuro delle reti tlc tracima dai palazzi della politica istituzionale per arrivare sui giornali e lambire anche i social, con battibecchi tra esperti e addetti ai lavori.

Tutto nasce da un intervento sul Sole 24 Ore scritto da ex manager del gruppo Telecom Italia.

Che cosa hanno scritto gli ex Pascale boys? Hanno vergato un invito “al Governo, alla Cdp che può avere un ruolo di guida (nel rispetto dei propri già coraggiosi impegni), al sistema imprenditoriale dell’Italia, alle professionalità sane ed illuminate che vivono e lavorano nel Paese. Occorre ricreare un azionariato nazionale che arrivi al 30% e diventi il fermo riferimento dell’azienda; occorre recuperare e dare spazio alle competenze che tuttora esistono in Tim e riportarle a ricoprire i ruoli manageriali principali, nell’ambito di un programma/progetto chiaro, lungo, coerente; serve ragionare su quello che deve essere un sano e funzionale assetto del settore in Italia, impedendo scorribande virtuali basate sulla “svendita” dei servizi”.

Agli ex manager dell’allora Telecom Italia come Vito Gamberale, ha replicato sempre sul Sole 24 Ore Franco Debenedetti, manager, imprenditore, già senatore e ora presidente dell’Istituto Bruno Leoni, il centro studi di impronta liberista diretto da Alberto Mingardi. Debenedetti, rimbrottando i firmatari dell’appello, critica il progetto del governo per una “rete in fibra unica e pubblica”, come emerge secondo Debenedetti dall’emendamento del governo approvato in Senato.

Dalle colonne del quotidiano di Confindustria diretto da Fabio Tamburini, ieri il dibattito si è trasferito su Twitter con puntuti cinguettii di Franco Bassanini, già presidente della Cassa depositi e prestiti e ora presidente di Open Fiber (controllata da Cdp ed Enel). Ecco i tweet:

 

ESTRATTO DELL’INTERVENTO DI EX MANAGER DI TELECOM ITALIA SUL SOLE 24 ORE:

Abbiamo avuto il privilegio di essere i “Pascale boys”. Leggere sulla stampa ipotesi di “spezzatini” basati su scorpori dei servizi, della rete, di Sparkle, spesso formulate da personaggi che non hanno ruolo o competenze per esprimerle, crea sconcerto tra coloro che conoscono e seguono il settore. Non si tratta solo di noi che avevamo creato la Grande Telecom Italia, o dei professionisti che lavorano ancora nel Gruppo o dei tanti azionisti- il titolo è ai minimi degli ultimi anni- ma anche delle decine e decine di aziende, partner o fornitori, i cui piani di sviluppo sono strettamente legati a quelli di una TIM a cui serve chiarezza su come coniugare soluzione dei problemi e strategia; ma anche e soprattutto di un settore che deve trovare, in Italia, equilibrio e realismo (in USA, 320 mil di abitanti e 4 operatori mobili; in Italia 60 mil di abitanti e 4 operatori mobili!) .
Sappiamo bene che le – troppe – difficoltà che TIM ha dovuto progressivamente affrontare negli anni trovano origine in una privatizzazione riuscita male e soprattutto nell’avvicendarsi di numerose gestioni “privatistiche”, generalmente improvvisate (tranne forse quella che fece capo alla Pirelli), tutte caratterizzate dall’aver sostituito le diffuse competenze che c’erano nel Gruppo con le più improvvisate incompetenze.
Oggi ci troviamo dinanzi ad una possibile e temibile ultima svolta per TIM.
Siamo però convinti che una netta inversione di tendenza sia ancora possibile, partendo da un confronto trasparente e costruttivo con le Istituzioni.
Prima di tutto occorre evitare l’idea, puramente speculativa e cinica, di vendere a pezzi TIM: i servizi, senza la rete, renderebbero TIM sempre più soggetta alle incursioni degli OTT, sempre più virtuale, sempre più dissociata dalle competenze, sempre più in balia di ulteriori sbrindellamenti; d’altro canto, una fusione, in una società a se stante, completamente svincolata dai servizi, delle infrastrutture di TIM con Open Fiber, potrebbe forse essere la parziale soluzione del debito, ma non qualcosa di logico ed industriale. Il rischio sarebbe il colpo finale a TIM, facendo dell’Italia l’unico Paese importante senza un proprio operatore col ruolo di Incumbent e, in prospettiva, con una rete sempre più povera di intelligenza connessa ai servizi. Ossia, proprio nel pieno della rivoluzione 4.0 che coinvolge l’umanità, e quindi il Paese, l’Italia non avrebbe la certezza di partecipare appieno a questa emancipazione. Da qui l’invito che rivolgiamo al Governo, alla CDP che può avere un ruolo di guida (nel rispetto dei propri già coraggiosi impegni), al sistema imprenditoriale dell’Italia, alle professionalità sane ed illuminate che vivono e lavorano nel Paese. Occorre ricreare un azionariato nazionale che arrivi al 30% e diventi il fermo riferimento dell’Azienda; occorre recuperare e dare spazio alle competenze che tuttora esistono in TIM e riportarle a ricoprire i ruoli manageriali principali, nell’ambito di un programma/progetto chiaro, lungo, coerente; serve ragionare su quello che deve essere un sano e funzionale assetto del settore in Italia, impedendo scorribande virtuali basate sulla “svendita” dei servizi; occorre ridare uno standard ai servizi, pretendere il rispetto e la garanzia degli stessi a beneficio dei cittadini; occorre non avere il solo driver dell’abbattimento dei prezzi; occorre rilanciare il sistema industriale delle TLC nel Paese; occorre difendere e sviluppare l’occupazione del settore. È questo l’invito che rivolgiamo con forza.

Piero Bergamini, Francesco Chirichigno, Umberto de Julio, Girolamo Di Genova, Vito Gamberale, Roberto Pellegrini, Roberto Rovera
 

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ECCO UN ESTRATTO DELL’INTERVENTO DI FRANCO DEBENEDETTI SUL SOLE 24 IN REPLICA AGLI EX MANAGER TELECOM ITALIA:

Occorre evitare l’idea, puramente speculativa e cinica, di vendere a pezzi Tim: i servizi, senza la rete, renderebbero Tim sempre più soggetta alle incursioni degli Ott». Sono rimasto molto sorpreso nel leggere questo appello: io lo condivido pienamente, chi lo firma sono sette illustri professionisti, sette manager che hanno ricoperto ruoli apicali nell’ex-monopolista Telecom – e prima -, con i quali ebbi, proprio su questo giornale, contrasti assai vivaci negli anni della sua privatizzazione – e dopo. Vi vedo la conferma che, nella decisione sull’assetto strutturale della rete a banda ultra larga, sono in gioco princìpi che vanno oltre lo specifico della materia in questione, e che vanno considerati, perché toccano gli interessi generali del Paese.
Quali interessi? La copertura a banda ultralarga, perché da essa dipende l’aumento delle competenze digitali dei cittadini e della competitività delle nostre imprese. Il sistema Italia, perché susciti volontà di investire in chi già vi opera e attragga l’interesse di chi vorrà farlo in futuro; quindi, in primo luogo rispettando il diritto dei proprietari di disporre dei loro beni, o in caso contrario di esserne indennizzati; e parimenti evitando l’intervento diretto dello Stato in settori dove operano imprese private. Infine l’interesse a mantenere in Italia una delle poche grandi aziende che abbiamo: è infatti evidente che più non lo sarebbe Tim, privata che fosse della propria rete, come dicono i firmatari dell’appello di ieri. Sarebbe ben assurdo se da un lato ci si opponesse alla vendita di Comau, perché segnerebbe un’ulteriore riduzione della presenza Fiat in Italia, e dall’altro si imponessero ope legis spezzatini e nazionalizzazioni, alla fine dei quali in Italia non ci sarebbe più una grande azienda privata di telecomunicazioni. Perdipiù quando l’integrazione verticale di auto e macchine utensili è un’eccezione, mentre quella di telefonia e rete è stata e ancora largamente è la regola.
Il documento all’esame della Camera indica due ragioni per la “rete in fibra unica e pubblica”. Questa tesi si basa su due equivoci, da cui è necessario preliminarmente sgombrare il campo. Il primo è che con un operatore telefonico verticalmente integrato con la sua rete non sia possibile garantire a tutti gli altri parità di condizioni di accesso. La ventennale esperienza britannica di Openreach sta a dimostrare che, e come, questo può farsi perfettamente con la separazione funzionale, al limite societaria, della rete dell’incumbent senza bisogno di separazione proprietaria; mentre i casi di Australia e Nuova Zelanda sono a dimostrare che fare il contrario va incontro a inconvenienti gravi. Il secondo riguarda gli sprechi che potrebbero derivare da una duplicità di reti. Strana affermazione: la concorrenza non produce sprechi, ma anzi un miglior uso delle risorse. Le «inefficienze derivanti dalla eventuale duplicazione di investimenti» sono conseguenza dell’errore politico che è all’origine di tutto ciò. Di Matteo Renzi che, per guadagnare consenso politico, pensa di intestarsi il tema di recuperare il – presunto e convenientemente gonfiato – ritardo italiano nell’accesso al web, decide che la concorrenza che c’è non basta e si inventa Open Fiber. Di Giuseppe Conte che decide che di concorrenza ce n’è troppa e vorrebbe sacrificare un’azienda sana e privata pur di salvaguardare quella pubblica e con qualche problema. A proposito: che ne è delle vantate sinergie con la sostituzione dei contatori, da cui tutto ebbe inizio? Si son perse per strada?
Matteo Renzi, secondo un classico della politica industriale, “scelse il vincitore”, e non una ma due volte: costruì un soggetto artificiale senza le necessarie competenze di settore, scelse la tecnologia, la fibra fin dentro casa (Ftth), sostenendola con una sistematica e artificiosa campagna contro la rete di accesso in rame. Anche il timing di questa scelta fu singolarmente sbagliato, perché nel periodo 2012-2017 Tim aveva compiuto un notevole balzo in avanti nella copertura Ubb con la tecnologia della fibra fino al cabinet (Fttc), e ultimi 100 metri in rame: mentre nel 2016 eravamo, per numero di case “passate”, al 27esimo posto in Europa, nel 2017 eravamo al 15esimo, recuperando 12 posizioni, e collocandoci 8 punti sopra la media europea. Non è vero che col Ftth ci sia davvero un bit-rate superiore: i 2,5 Gbit/s nominali della tecnologia Ftth-Gpon decadono velocemente col crescere degli utenti connessi, durante le ore di massimo traffico, con una trentina di connessioni attive, sono analoghi a quelli che si ottiene con la tecnologia Vdsl-2, addirittura inferiori a quelli ottenuti con le terminazioni Evdsl, per non parlare col Gfast. Non è neppure vero che la fibra ottica sia la tecnologia future proof: quando ci sarà la banda larghissima con tecnologie wireless, la fibra ottica potrebbe risultare difficile da allestire e manutenere; senza contare che anche le tecnologie sul rame progrediscono. Ne è conferma quello che si constata nei Paesi europei a noi più vicini: passaggio alla fibra in tempi lunghi, valorizzando nel contempo la rete in rame sfruttandone gli sviluppi che consentono bit rate superiori ai 100MBit/s.
Ma poi perché aprire il problema? Non per ridurre i prezzi, già tra i più bassi in Europa. Non per gli investimenti, a cui provvede il mercato, e se non basta, i bandi. Solo un doppio pregiudizio: l’unicità della rete, e il servizio reso da un’azienda privata. Non ci sono ragioni in positivo – di concorrenza o di efficienza – per imporre, e ce n’è una – di sistema industriale – per non imporre a Tim decisioni e scelte che sono di pertinenza della proprietà. Mantenere la situazione attuale, con AGCom che monitora la separazione funzionale della rete in Tim, e smettendo di demonizzare il rame, potrebbe perfino essere la soluzione di default: eliminando la concorrenza sul Ftth, dato che ci sono ragioni per ritenere che in tal caso la presenza di due operatori wholesale-only che si suddividono i clienti retail non è sostenibile.
Le altre soluzioni sono: l’aggregazione in Open Fiber della totalità della rete Tim (parziale non avrebbe senso); l’aggregazione di entrambe le reti in un veicolo di cui Tim detenga il controllo; oppure l’aggregazione nella rete di Tim, con il che Open Fiber, o solo Cdp, potrebbe dire che ha valorizzato il suo investimento diventando socio di minoranza di Tim. Essendo chiaro che sono tutte decisioni che dipendono degli azionisti di Tim (tra cui c’è anche Cdp). Il governo può solo usare la moral (e financial) suasion nella direzione che ritiene migliore: rinazionalizzare il settore telecomunicazioni, o mantenere in Italia una grande azienda italiana.

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