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Lewandowski

Storia di Anthony Levandowski, l’ex di Google accusato di spionaggio

L'articolo di Carlo Terzano

 

Non tutte le spie che si muovono sul suolo americano provengono dalla Cina, come parrebbe indicare l’ossessione del presidente USA Donald Trump. Non tutti gli spioni hanno gli occhi a mandorla e passaporto di Pechino. E non sempre a origliare è qualche dispositivo Huawei. Come sembra dimostrare, per esempio, la storia dell’ingegnere statunitense Anthony Levandowski, accusato da Google del furto di migliaia di files.

CHI È ANTHONY LEVANDOWSKI

Più che un freddo caso di cronaca e spionaggio industriale, la storia di Anthony Levandowski sembra un vero e proprio giallo estivo, quelli che si leggono in spiaggia, sotto l’ombrellone. Gli ingredienti speziati utili a tenere desta l’attenzione del lettore, del resto, non mancano: intrigo, soldi, fama, un individuo geniale, una smodata smania di potere e pure, lo vedremo, un pizzico di tricolore. Come ricorda il New York Times, fino a pochi mesi fa, quello di Levandowski era un nome che riecheggiava lungo tutta la Silicon Valley. Ex dirigente di Google, considerato tra gli ingegneri più dotati e capaci nel campo della progettazione dei veicoli a guida autonoma (progettò una moto senza pilota nel lontano 2004, quando era ancora all’università), valeva esattamente tanto oro quanto pesa. Non poco, perché Levandowski è un bel ragazzone alto e corpulento.

THE BIG LEVANDOWSKI

Rispetto a tanti altri suoi colleghi, Levandowsky ha dimostrato di non essere animato soltanto dalla passione per numeri, formule matematiche e algoritmi, ma di sapersi muovere lungo le strutture avveniristiche che punteggiano la Silicon Valley con una certa disinvoltura e malizia. Agente di se stesso, dopo essere stato uno degli uomini di riferimento del progetto WayMo (le auto a guida autonoma che Alphabet-Google sta studiando in joint venture con FCA, e qui sta il particolare tricolore del giallo) ha sorpreso tutti perché, nel 2016, di punto in bianco, Levandowski si è alzato dalla propria scrivania in quel di Google, ufficio di gran classe con tutti i confort, per non tornare più. Aveva infatti rassegnato le dimissioni da uno dei posti più ambiti, in una delle multinazionali più potenti al cui interno si era già fatto un nome e una posizione invidiati un po’ da tutti. Per fare cosa? Fondare una sua start up, Otto. Che caso vuole sviluppasse tecnologia per camion (non auto, si dirà) a guida autonoma.

LA SPIA CHE VENIVA DA GOOGLE

Forse Levandowski era stanco di indossare tutti i giorni la cravatta? Un anticipo di una crisi di mezza età? Era tormentato dall’irrefrenabile desiderio di avventura che nessun viaggio in un luogo esotico avrebbe mai potuto placare? Chi può dirlo. Sta di fatto che l’ingegnere, dopo qualche anno, ha varcato le porte di Uber, non prima di averle venduto Otto, ed è tornato a lavorare in azienda. E qui si concentrano i sospetti, che nel tempo sono diventate accuse, poi tradotte in 33 capi di imputazione. Perché, secondo Google, Levandowski prima di mettere i suoi effetti nella tradizionale scatola di cartone le avrebbe sottratto qualcosa come 14.000 documenti riguardanti tecnologie e algoritmi sull’AI top secret (tra cui i progetti su Lidar, i sensori sfruttati proprio dalle auto senza pilota), in studio nei laboratori della multinazionale statunitense. Sul caso era già stata montata una causa civile che Google aveva intentato a Uber, poi risolta stragiudizialmente anche con il licenziamento del pioniere sulla ricerca dei veicoli a guida autonoma.

L’ARRESTO. “LA SILICON VALLEY NON È IL FAR WEST”

Succede spesso, si dirà. Perché spesso capita che teste d’uovo di rilievo cambino azienda e, assieme alla propria genialità e a un curriculum di tutto rispetto, portino con loro pure know-how coperto da segreto. Succede invece molto più raramente che uno di questi geniacci venga arrestato con l’accusa di spionaggio industriale. Come è successo a Levandowski. L’ex di Google non solo è stato prelevato di peso dalla polizia e portato dietro le sbarre, ma ora rischia fino a 10 anni di carcere oltre una multa da 250.000 dollari. “La Silicon Valley è un fermento creativo, ma questo non significa che sia il Far West: anche qui valgono le norme federali sullo spionaggio industriale”, hanno commentato dal dipartimento dell’FBI che ha seguito il caso. “Tutti noi siamo liberi di cambiare lavoro, anche in Silicon Valley – ha specificato il sostituto procuratore David Anderson – ma quello che non possiamo fare è riempirci le tasche mentre usciamo dalla porta”. Gli avvocati di Levandowski, invece, ritengono che siano state compresse le sue libertà e che sostanzialmente si tratti di una vendetta di Google. Intanto, la prima udienza è fissata per il prossimo 3 settembre.

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