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Che cosa bisbigliano Sony, Universal e Warner dopo l’ingresso trionfale di Spotify a Wall Street

Spotify decolla in Borsa ma dietro il fantasmagorico debutto del servizio di streaming musicale svedese si avvertono mormorii nell’industria discografica mondiale Il servizio di streaming musicale più famoso del mondo ha debuttato ieri a Wall Street con un prezzo di apertura di 165,90 dollari ben al di sopra del suo prezzo di riferimento di 132…

Il servizio di streaming musicale più famoso del mondo ha debuttato ieri a Wall Street con un prezzo di apertura di 165,90 dollari ben al di sopra del suo prezzo di riferimento di 132 dollari fissato dal New York Stock Exchange. Spotify ha chiuso a 149,01 dollari con una capitalizzazione di mercato di 26,5 miliardi di dollari. In poche parole: un esordio da record.
La società di Stoccolma ha scelto una quotazione diretta (anziché la comune ipo, offerta pubblica iniziale) ed è stata un banco di prova per le altre aziende tentate di fare il grande salto in Borsa senza passare per gli intermediari finanziari (e risparmiarsi quindi le commissioni).

LA CAPOFILA DELLO STREAMING MUSICALE

Da quando ha lanciato il servizio dieci anni fa, Spotify ha trasformato il modo in cui si ascolta la musica ponendo una barriera d’arresto ai pirati digitali. Ci sono infinite playlist tra cui scegliere in base al momento della giornata o allo stato d’animo e per 9,99 euro al mese la possibilità di ascoltare qualsiasi brano senza interruzioni pubblicitarie. Di 159 milioni di utenti attivi nel mondo con la versione freemium (un po’ di advertising in cambio di streaming gratis) 71 milioni sono abbonati paganti. Eppure, Spotify continua a non generare profitti e deve affrontare un’intensa concorrenza da parte di Apple Music &Co. Spotify doppia quasi Apple Music, con 71 milioni di abbonati premium contro i 46 del rivale di Cupertino, lasciando indietro Amazon Music Unlimited con 16 milioni di abbonati paganti e Pandora con 5,48 milioni di abbonati totali. Tuttavia, rimane sempre il buco nero nei conti della società svedese. Una perdita di 1,24 miliardi di euro in dodici mesi.

IL GIOCOFORZA CON LE MAJOR

“Così nel ’99, stavo pensando a come ottenere tutta la musica possibile in modo legale e allo stesso tempo compensando l’artista”: ha sintetizzato in questo modo la nascita di Spotify il fondatore Daniel Ek in un’intervista ieri mattina a CBS This Morning. Riguardo al compensare l’artista sicuramente compensa l’etichetta: anche se Spotify guadagna 5 miliardi di dollari l’anno, paga più di tre quarti di quelle entrate in royalties a casa discografiche, produttori, cantautori e artisti. Le tre major dell’industria discografica – Sony Music, dei giapponesi, Universal Music Group del gruppo francese Vivendi e l’americana Warner Music – controllano una vasta maggioranza di questo ecosistema, lasciando solo una piccola quantità di entrate – e zero profitti – per Spotify che tenta di recuperare dai suoi 71 milioni di abbonati paganti. Dalla grossa fetta di abbonati free (quasi 90 milioni), Spotify guadagna soltanto il 10% circa del suo fatturato annuo totale dalla pubblicità.
Non è finita qui: le Big 3 non solo percepiscono le royalties da Spotify, ma detengono capitali propri nella società svedese come condizione sine qua non delle offerte per concedere in licenza i loro cataloghi alla piattaforma di streaming.
Come riporta Forbes, ora che Spotify è quotata alla borsa di New York, le etichette continuano a insistere sul fatto che i musicisti avranno una fetta della torta dopo il debutto da record del gigante dello streaming. Al momento, però, le parole delle tre major – che detengono l’80% dei diritti dei brani trasmessi da Spotify – sono molto promesse e poco dettagliate. Secondo Forbers, le etichette offriranno agli artisti solo una minima parte della quota, se e quando venderanno le proprie azioni. Potrebbero accelerare i tempi gli artisti stessi se iniziassero a chiedere a gran voce risposte.

DAL PUNTO DI PARTENZA

“È il giorno dopo, e il giorno dopo ancora a contare e tutti quei giorni a venire. Perché è in quel momento che perseguiremo la nostra missione” si legge nel post rilasciato sul sito della società svedese firmato Daniel Ek. Sarà proprio il domani a contare per Spotify se non sarà in grado di trovare flussi di entrate aggiuntivi o modi per trasformare i numerosi abbonati gratuiti in utenti paganti. Ciò che è certo è che l’industria musicale ha bisogno di servizi di streaming come Spotify tanto quanto i servizi di streaming non possono prescindere dalle etichette. Questo Giano bifronte è il pilastro su cui si fonda l’attuale industria musicale. Qualunque cosa accada alla distribuzione della musica in futuro, Spotify giocherà sicuramente un ruolo importante, che riesca a trasformarsi in una piattaforma redditizia o meno.

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