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Contributi Pubblici Quotidiani

Perché Elkann e De Benedetti hanno silurato Calabresi da Repubblica e assunto Verdelli (e quale sarà l’effetto sul web)

Che cosa succederà a Repubblica con Verdelli al posto di Calabresi? L'approfondimento di Michele Mezza, già giornalista Rai per 35 anni

Le coincidenze sono isole, che diventano picchi di un’unica piattaforma terrestre se togliamo l’acqua. Una metafora che potrebbe aiutarci a dare un senso alla repentina svolta che ha portato il direttore de la Repubblica, Mario Calabresi, a essere sostituito con un ex direttore della Gazzetta dello Sport, Carlo Verdelli. In pochi giorni infatti si sono addensati sullo scacchiere internazionale, in particolare sul mercato americano, eventi che hanno reso, forse, indifferibile l’avvicendamento. Che, si legge nello stesso comunicato di saluto del direttore uscente, non pare sia stato indolore.

Solo una settimana prima, il 23 gennaio, considerato il Black Wednesday del giornalismo, negli Usa sono stati licenziati contemporaneamente più di mille redattori. Una mattanza che non si è consumata in testate decotte o traballanti, ma nel cuore del fior fiore del giornalismo più innovativo e affermato, come la catena multimediale Verizon, il possente sito news BuzzFeed e la catena di giornali locali della famiglia Gannet.

A essere sostituiti con bot e intelligenze artificiali, in larga parte, proprio le funzioni di desk, l’ultimo ridotto in cui si erano rifugiati i giornalisti dopo le decimazioni di inviati e corrispondenti.

Qualche giorno dopo un segnale in apparente controtendenza: ad Atlanta, in occasione del Super Bowl, l’attesissima finale del football americano, il Washington Post, di proprietà del fondatore di Amazon Jeff Bezos, ha trasmesso un costosissimo spot di sessanta secondi per lanciare la sfida del giornalismo di qualità, con giornalisti di qualità e organizzazioni tecnologiche di qualità.

I dati sono spietati: solo sette anni fa, il quotidiano romano superava abbondantemente le cinquecentomila copie, oggi siamo sotto le duecentomila. Lo stesso sito web, che ha vantato pionieristiche intuizioni editoriali, oggi viene superato da siti quali Citynews o lo stesso TgCom. Insomma siamo oltre il declino e ci si avvicina alla rotta. Esattamente com’era, nell’agosto del 2013, il Washington Post al momento di essere svenduto, solo 250 milioni di dollari, al padrone di Amazon.

Lo stesso giornale statunitense è oggi un sistema editoriale a tutto tondo, ventiquattro ore su ventiquattro, che si è ripreso dall’abisso in cui stava sprofondando proprio grazie all’iniezione di capitali ma anche di strategie che il nuovo proprietario ha assicurato, mutando pelle alla redazione.

Innanzitutto dal punto di vista della composizione: turnover frenetico, fuori i vecchi dentro i nuovi. In soli cinque anni il sessanta per cento dei giornalisti è cambiato non solo anagraficamente: l’età media dei nuovi è attorno ai ventotto anni. Ma sono cambiati anche i profili professionali: operatori multimediali che possono persino lavorare all’edizione cartacea.

La testata, padrona delle proprie tecnologie e produttrice dei propri algoritmi, ormai ha un’infinita gamma di declinazioni editoriali, che rendono il quotidiano in edicola solo una, e la meno rilevante, delle sue attività. In questo contesto la qualità dei reporter, decantata nello spot del Super Bowl, è un valore aggiunto che moltiplica e finalizza un indotto organizzativo e imprenditoriale di straordinaria innovazione.

La scelta di Verdelli, un prestigioso ristrutturatore di redazioni, fa intendere che si voglia imboccare quella strada. Ma già Calabresi, tre anni fa, in piena evidenza della crisi, si presentò con l’ambizione di fare come Bezos, anzi, forse sarebbe meglio dire, fare come Mark Zuckerberg e Larry Page, perché la sua gestione a La Stampa di Torino aveva mostrato una particolare sensibilità per la collaborazione con i due monopolisti del mercato digitale.

La Stampa era stato infatti il battistrada nell’intesa di instant articles, la formula di Zuckerberg che acquisiva e distribuiva le notizie dei quotidiani. Anche altre grandi testate, come The Guardian, El Pais, e lo stesso New York Times, avevano partecipato all’accordo. Ma se ne distaccarono poco dopo, quando scoprirono l’inghippo: Facebook diventava la proprietaria delle relazioni fra il giornale e i suoi lettori, confiscando e rielaborandone i dati.

La Stampa invece perseverò, prodigandosi in un’azione promozionale pressante che arrivò a stringere accordi di cooperazione tecnologica con entrambi i due giganti della Silicon Valley. Al momento del trasferimento a Repubblica, in coincidenza con un’integrazione industriale della Gedi nelle due testate, Calabresi portò a Roma il suo staff di collaboratori, e le sue relazioni con Facebook e Google. Si annunciavano sfracelli, si constatarono fallimenti.

Le testate non tesaurizzavano gli effetti della collaborazione, il traffico latitava, e si perdeva slancio. Tanto più che, guidati dal New York Times, le redazioni che ruppero l’accordo furono in prima linea nella campagna contro le degenerazioni dei due monopolisti nella gestione dei dati, a partire dallo scandalo di Cambridge Analytica, recuperando così immagine e protagonismo in rete. Così non è stato per chi invece si mostrava meno reattivo nella denuncia delle rendite di posizione on line.

Il risultato è di un’impasse generale dal punto di vista organizzativo. A Repubblica carta e web ancora sono inquilini di un condominio dove si fanno poche assemblee: due piani diversi, due gerarchie distinte e cicli produttivi l’uno separato dall’altro.

Nel 2019 forse è davvero troppo.

L’arretratezza si paga in costi di produzione, macchinosità organizzativa e soprattutto in mancata innovazione di processo. Le sperimentazioni audiovisive, con alcuni pregevoli documentari prodotti insieme all’agenzia H24, non hanno innestato uno stile narrativo diverso, ma sono rimasti semplici funghi nel deserto. La stagnazione organizzativa non è stata certo compensata da un ruolo più centrale della politica editoriale.

Il tentativo si sfruttare le pacchiane aggressioni dei grillini al giornale per posizionarsi come vera guida morale dell’opposizione non produce effetti: la carica anti elitaria tende a neutralizzare ogni impennata di chi, come Repubblica o, prima la Rai, è considerata parte integrante della casta. La testata sembra omologarsi alla sua area politica più attigua, come il Pd, e importare tutte le incertezza e le difficoltà di relazione con la società.

Il tentativo di trovare ogni volta un coniglio bianco, un leader da telecomandare o semplicemente da affiancare non riesce. Né le giaculatorie domenicali di Scalfari, tanto meno le rampogne di Mauro bucano la coltre di nebbia. Non giova certo poi la guerra interna: la saga dei De Benedetti, fra padre e figlio, o le ripicche del direttore emerito Mauro contro quello in carica Calabresi.

Siamo ora allo show down. Esce l’ultimo direttore bandiera, entra un capo cantiere. Il punto sarà chi fa il progetto: Verdelli o il partito dei consulenti che già ha fermato le ambizioni di Calabresi?

A Repubblica cosa significa? Una grande newsroom che per ventiquattr’ore produca e selezioni flussi di informazioni, incrociandoli con i dati che raccoglie e induce con i suoi dispositivi. Da questa giostra verrà composta persino, potremmo dire, la versione cartacea, sia del quotidiano guida sia del dorso comune a tutte le testate locali.

Un possente sistema logistico delle notizie, che tenderà ad assomigliare, per logica di automazione e sistematizzazione dei flussi da selezionare più che da produrre, più a un magazzino di Amazon che a un’operation room di Facebook.

Con questo accorpamento si moltiplicheranno le offerte on line, si produrranno più navigatori di notiziari. Il tasto dolente riguarderà l’occupazione: ballano qualcosa come duecento giornalisti fra Roma e le sedi periferiche dell’intera catena Gedi. E non sono più i sessantenni, già decimati negli anni passati. Questo in parte aveva frenato Calabresi.

(Estratto di un articolo pubblicato su ytali.com; qui l’articolo integrale)

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