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Perché sull’Intelligenza artificiale si gioca la partita geopolitica per l’egemonia del futuro

Pubblichiamo la relazione tenuta da Salvatore Santangelo alla tavola rotonda “Big data e Intelligenza artificiale per imprese e start up” organizzata dall’università Link Campus lo scorso 5 dicembre L’intera saga di “Terminator”, “ex-Machina”, “Alien Covenant”: il grande schermo ci ha ormai abituato alle trasposizioni cinematografiche dei rischi connessi allo sviluppo incontrollato dell’Intelligenza Artificiale. Un tema…

L’intera saga di “Terminator”, “ex-Machina”, “Alien Covenant”: il grande schermo ci ha ormai abituato alle trasposizioni cinematografiche dei rischi connessi allo sviluppo incontrollato dell’Intelligenza Artificiale.

Un tema che ha spaccato il mondo dei tecnoguru con pezzi da novanta come Peter Thiel ed Elon Musk schierati dalla parte dei catastrofisti: attacchi da hacker informatici sulle auto a guida autonoma e AI – le macchine pensanti appunto – che prendono il sopravvento e si rivoltano contro l’uomo. È questo lo scenario, o meglio il timore, espresso dal patron di Tesla per il futuro. È dello scorso anno la notizia che Facebook ha interrotto un esperimento sulle macchine senzienti quando i due processori coinvolti hanno cominciato a comunicare tra di loro in un linguaggio non comprensibile agli sviluppatori.

Quello che è chiaro è che intorno a questo tema – e più in generale sull’innovazione – si giocherà la lotta per l’egemonia del futuro. Un concetto che Putin ha codificato in un assioma geoeconomico: “Chi controllerà lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale controllerà il mondo” (Una sentenza lapidaria che ridefinisce i parametri di una Geopolitica 4.0 dove l’immateriale prende il sopravvento sulle coordinate geografiche; in realtà questo slogan riecheggia quello staliniano “Tutto il potere alla tecnologia” che – nel grande balzo degli anni trenta – aveva sostituito “Tutto il potere ai quadri politici”).

E proprio la lotta per la definizione dei nuovi protocolli comunicativi sta certamente dietro al clamore arresto della numero 2 del colosso cinese Huwei da parte dei canadesi su mandato statunitense.

Fiumi di inchiostro sono stati spesi per cercare di decodificare – o meglio “craccare” – il “codice dell’innovazione” che ha reso possibile il miracolo di Silicon Valley o, più in generale, dei grandi centri di ricerca statunitensi in grado di generare poderosi ritorni economici.

Per chi riuscisse a trovarlo vale la pena di riprendere in mano il “Il mezzogiorno nella politica scientifica” di Giuseppe Sacco, che nel lontano ’68 fece conoscere per primo al pubblico italiano il fenomeno della Route 128 (quel peculiare cluster dell’innovazione generato attorno ad Harvard e al MIT di Boston) e la Santa Clara County (come allora si chiamava la Silicon Valley). In questo senso il professore – tornando sul tema – ha recentemente affermato: “Nel periodo tra la Prima guerra mondiale e gli anni Ottanta, cioè nella parte centrale del nuovo secolo, c’è stato in USA un fortissimo flusso di innovazioni, sia per la gara russo-americana in campo spaziale, sia per la crescita continua del reddito di una vasta classe media che creava la domanda di nuovi prodotti destinati alle famiglie. Ma ciò ha coinciso anche con una delocalizzazione progressiva dell’industria che ha danneggiato l’America in termini di potere economico. Tuttavia, già prima di questi fenomeno, l’innovazione in USA aveva preso un andamento esponenziale come ricaduta della ricerca in campi nuovi”.

Continuando la sua riflessione sulle ricadute geopolitiche di questi fenomeni e sulle strette relazioni tra industria e innovazione ha aggiunto: “Oggi, i due fenomeni si incrociano. Siccome le conoscenze tecniche sono facilmente esportabile, la perdita di potere dell’America sarà ancora più grave se i Paesi più innovatori saranno altri”.

Infatti, il mondo oggi sta conoscendo nuovi avvincenti miracoli. Si pensi a alla Cina o a Berlino, che il sindaco Klaus Wowereit, solo nel 2004, definiva “Arm aber sexy” (povera ma sexy) e che oggi è – insieme a Londra – uno dei centri più ricchi di imprese innovative: la città stessa può essere considerata alla stregua di una vera e propria startup.

Ma il caso più eclatante è quello di Israele. Henry Rome – sul Jerusalem Post – ha cercato di definire i peculiari ingredienti della “zuppa israeliana”, una ricetta in cui si amalgamano perfettamente peculiari caratteri nazionali, una riuscita politica industriale (concetto che alcuni Paesi occidentali addirittura rifiutano), un solido sistema universitario, una continua interazione tra il mondo civile e quello militare e un particolare ruolo del decisore pubblico (in Israele il primo capitalista di ventura è stato infatti lo Stato tramite uno specifico fondo denominato Yozma che dal 1991, con un stanziamento iniziale di 100 milioni – accompagnato dalla creazione di 24 centri di incubazione tecnologica – ha avuto la capacità di generare ritorni stimati per quasi 4 miliardi).

Per chi volesse approfondire l’argomento, consiglio di leggere “Laboratorio Israele” di Dan Senor e Saul Singer, di scorrere la poderosa ricerca pubblicata ogni anno dal Centro studi IVC.

Come spesso accade la notorietà crea anche un’attenzione da parte della politica che cerca di rigenerare la propria immagine avvicinandosi a temi percepiti come “di tendenza”, e così si moltiplicano i tentativi di emulare i casi di successo; ma come ci ha insegnato lo storico studio di Vivek Wadhwa sui tentativi falliti nell’emulare “a tavolino” il modello Silicon Valley, il successo non sta tanto e non solo nell’università, nelle imprese, e nemmeno nei pur importanti investimenti governativi. La ragione della forza di questo modello sta piuttosto in un’alchimia originale, nelle persone, e nelle “relazioni uniche” tra i territori, le strutture accademiche e le aziende.

Richard Florida ci ricorda che “negli Stati Uniti, l’economia creativa è potente e diffusa perché è sostenuta da una potente infrastruttura”. Sempre Sacco ci aiuta ad esplicitare questo concetto: “Per anni è parso che l’ambiente migliore per l’innovazione fosse l’anarchia, che ha favorito da un lato la moltiplicazione degli innovatori, talora persino la loro polverizzazione, e dall’altro la nascita rapidissima di alcuni colossi finanziari nel campo dei media (fenomeni che a loro volta favoriscono l’anarchia). In realtà, la sfida cruciale – quella della digitalizzazione di ogni attività, non solo economico-produttiva, ma persino nel campo della vita naturale ed umana – richiede una risposta consapevole, collettiva e organizzata, in cui il ruolo del potere politico-statuale è indispensabile e cruciale”. Un aspetto che Putin sembra aver colpo in pieno.

Per concludere, vale la pena di ricordare come Thiel (unico tra i “Signori del Silicio” a schierarsi con Trump) è arrivato a definire una startup di successo come un vero e proprio “complotto, riuscito”.

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