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Vi racconto (a puntate) la Guerra per i Talenti

L'approfondimento di Gian Marco Litrico

 

Uno spettro si aggira tra le economie avanzate: la mancanza di personale qualificato. Con la disoccupazione al 3,6%, ovvero ai minimi da 50 anni, l’America scopre di avere un problema di talenti, come si chiamano oggi, con uno squilibrio tra domanda e offerta di quasi un milione di unità ad aprile.

Una indagine di Korn Ferry proietta a livello globale un deficit di 85 milioni di unità al 2030. Se non si fa presto, è il succo, ci saranno 85.000 miliardi di dollari di “valore non creato”, il PIL di Germania e Giappone sommati.

Questo spettro può costare all’economia americana il 6% del PIL. Solo nell’hi-tech mancheranno 4,3 milioni di lavoratori, più di 40 volte il numero di dipendenti che ha oggi Alphabet.

Sul banco degli imputati per un fenomeno che preoccupa contemporaneamente Wall Street e Main Street, ci sono il calo demografico e la programmazione del fabbisogno educativo. Politici, aziende e famiglie premono perché si punti tutto sulle discipline STEM (scienze, tecnologia, engineering e matematica).

E i risultati, almeno nei numeri ci sono: a fine 2020, ci saranno 4 milioni di laureati STEM a fronte di 2 milioni e mezzo di posizioni lavorative aperte, ma il 70% di questi talenti, come in passato, sceglierà altre carriere, dall’insegnamento al management, anche a causa di una persistente diseguaglianza dei sessi. E non tutte queste discipline offrono le stesse opportunità: chimica e biologia, per esempio, aprono meno porte di ingegneria e computer science.

Poi c’è un problema di distribuzione irregolare delle risorse: il mondo dell’Università e della Ricerca, chiamatelo effetto Big Bang Theory, ha una sovrabbondanza di PhD, che sta per PHilosophy Doctor. Non nel senso letterale di dottore in filosofia, come piacerebbe a noi italiani, ma nel senso di persona con una istruzione post-universitaria, fortemente orientata alla ricerca. Nel settore pubblico, invece, c’è penuria in aree delicate come ingegneria nucleare e dei materiali, cybersecurity e intelligence. Nel privato, mancano sviluppatori software, ingegneri petroliferi e data scientist. Ma anche elettricisti e manovali generici nell’edilizia.

Sotto accusa ci sono anche l’insufficiente formazione di chi è già in azienda e la definizione talvolta velleitaria dei profili richiesti. Per la Bibbia del capitalismo, Forbes, “un’azienda può anche cercare uno sviluppatore che voli e canti le arie dell’opera italiana mentre scrive un programma informatico, ma questo non vuol dire che queste persone esistano, e sicuramente non a fronte del salario offerto”. Per Burning Glass, il 39% dei lavoratori informatici ha la laurea, che però è richiesta nel 60% delle offerte di lavoro nello stesso settore.

La Grande Recessione del 2008 è stata un punto di non ritorno: migliaia di dipendenti, a tutti i livelli, sono stati espulsi dal mondo del lavoro tradizionale e si sono rivolti in massa a contratti temporanei a basso coinvolgimento emotivo, gestiti attraverso un’app.

Gig economy, la chiamano. Sta avendo effetti collaterali enormi: un lavoro su 5 negli Stati Uniti è svolto da un freelance, ed entro dieci anni si arriverà a un lavoro su due. Il risultato è un mercato fatto di individui che saltano da un’occupazione all’altra: per la società Mercer, 2 dipendenti su 5 pensano di cambiare azienda entro i prossimi 12 mesi. Senza welfare e senza attaccamento alla bandiera aziendale. Ovvio che questo cambi le regole del gioco anche per i sindacati a stelle e strisce.

È un’altra rivoluzione che divora se stessa: Uber e Lyft misurano le loro ambizioni in Borsa mentre è sempre più difficile reperire le risorse umane, anche quelle a bassa specializzazione. Per questo Uber sta spingendo per i veicoli a guida autonoma.

Paradosso nel paradosso, i “liberi professionisti” di Uber, nel giorno della quotazione dell’unicorno più atteso dell’anno (così si chiamano le startup con una valutazione superiore al miliardo di dollari), hanno fatto picchetto, come si faceva nel secolo scorso, intorno alla statua del toro di Wall Street, per chiedere migliori condizioni di lavoro.

Alla fine, o all’inizio, però, il fattore di trasformazione più sconvolgente è il potere distruttivo-creativo della tecnologia.

Prendete l’AI (Artificial Intelligence): per il World Economic Forum creerà 58 milioni di nuovi posti di lavoro al 2022, ma per McKinsey Global Institute, entro il 2030, il 15% dei lavoratori dovrà cambiare occupazione e più di metà andrà riqualificato entro 5 anni.

(1. continua; le prossime puntate a partire da domani)

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