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Sundar Pichai

Google, ecco sfide e trambusti per Pichai. Il Punto di Feltri (ProMarket)

Le ultime notizie su Google a guida Pichai dopo l'uscita di Page e Brin commentate da Stefano Feltri, direttore di ProMarket.org, nella rubrica “Mark to Market”, la chiacchierata del sabato con il direttore di Start, Michele Arnese

Perché Page e Brin si sono fatti da parte?

Ci sono tante possibili spiegazioni. La più chiara è che il mondo delle big tech si divide in due grandi gruppi. Ci sono le aziende che restano dipendenti dal fondatore – come Amazon con Jeff Bezos e Facebook con Mark Zuckerberg – e quelle che se ne sono emancipate. Che possono crescere in modo più normale senza dipendere da un monarca assoluto. E’ la transizione più difficile, quando il fondatore è troppo ingombrante può anche affondare l’azienda, è il caso di Travis Kalanick, cacciato dalla sua Uber nel 2017, o di Adam Neumann di WeWork. Con l’uscita di Page e Brin, Google diventa definitivamente una azienda “normale”.

Gli analisti hanno detto che così la struttura sarà semplificata e Pichai potrà agire senza troppe interferenze. E’ così?

In realtà Google ha sempre fatto ricorso a top manager esterni, come Eric Schmidt che dieci anni fa l’ha portata alla quotazione. Ma di certo la filosofia delle grandi public company americane è che chi è al comando deve avere poche interferenze, soprattutto se è nel campo tech, dove ogni follia pare lecita e necessaria.

E’ quello che sta succedendo nella Silicon Valley?

Nessuno può limitarsi a voler fare soldi, devono tutti cambiare il mondo, promettere viaggi spaziali o l’immortalità. Non sono cose che può fare un semplice amministratore delegato. Nella Silicon Valley si sta sviluppando un nuovo culto della personalità del Ceo visionario, di cui un giorno rideremo come facciamo oggi della piaggeria nei confronti di Xi Jinping in Cina.

L’85% circa del fatturato di Google arriva ancora dalle pubblicità digitali. La diversificazione non rende ancora?

In realtà quel dato ci conferma una cosa importante: che tutta la diversificazione di Google ha permesso all’azienda di consolidare la sua forza in un settore in cui, in teoria, la competizione è alta. Anche Facebook, Twitter e perfino Amazon vendono spazi pubblicitari. Ma Google ha costruito il modello perfetto, perché la vendita della pubblicità non è soltanto i servizi di Google AdSense di cui tutti facciamo esperienza quando vediamo banner personalizzati. E’ soprattutto l’ordine dei risultati nel motore di ricerca, con la priorità data a chi paga, ai contenuti sponsorizzati. Più ricerche ci sono, più preziosi diventano quegli spazi, ma anche più accurata la profilazione. Google ha costruito una macchina di profitti che si autoalimenta.

Che cosa può cambiare nel business col nuovo corso centrato su Pichai?

Nel business poco, le strategie sono di lungo periodo e non rispondevano alle indicazioni specifiche di Page e Brin. Ma va notato come l’uscita dei fondatori arriva in un momento in cui Google sta attraversando una crisi reputazionale simile a quella di Uber nel 2017, anche se ha una enorme capacità di controllo della stampa e della politica e quindi è meno visibile.

Ci sono tensioni dunque?

Ci sono tensioni con i sindacati, con i lavoratori, gli impiegati raccontano di un clima sempre peggiore: i vertici dell’azienda sanno di essere i potenziali capri espiatori di qualunque cosa andrà storta nelle presidenziali 2020. Nel 2016 nel mirino c’era Facebook, con gli annunci pro-Trump pagati dai russi, oggi tutta l’attenzione è su Google. Il ceo Pichai deve gestire una transizione che è soprattutto culturale.

Cioè? Che cosa significa?

Il vecchio motto “do not harm”, non fare del male, è ormai poco adatto a una azienda che compra senza pudore il sostegno dei giornali e dei singoli giornalisti, con il suo programma di sostegno a un settore che ha distrutto con prezzi predatori e violazioni di copyright. Google poi ha abusato della sua posizione dominante, come dimostrato dalla Commissione europea che l’ha sanzionata più volte, e negli Stati Uniti influenza la politica in modo spregiudicato, con finanziamenti diretti e indiretti per condizionare non soltanto le dinamiche parlamentari, ma anche la ricerca accademica. Il ceo Pichai dovrà valutare con grande attenzione il rischio di passare un punto di non ritorno: le Big Tech stanno diventando la nuova Wall Street, ed è difficile fare affari quando la gente di considera un male della società.

Chi oltre la Warren punta a uno spezzatino delle Big tech?

Purtroppo questi temi stanno uscendo dalla campagna elettorale. Anche la Warren ne parla sempre meno, deve vincere in Iowa e nei primi stati delle primarie dove tutto si gioca sulla base democratica cui interessa la riforma dell’assistenza sanitaria e la tassa sui miliardari, il dibattito su Big Tech appassiona soltanto gli Stati sulle due coste.

E’ cambiato qualcosa con Bloomberg?

L’arrivo di Michael Bloomberg nella campagna elettorale sposta ulteriormente l’attenzione sulle questioni della disuguaglianza e razziali: dopo il ritiro di Kamala Harris, i candidati di prima fila sono tutti bianchi (Cory Booker è ormai quasi fuori), quindi già si intravede la psicosi da vicepresidente. Tutti dovranno cercarsi una spalla che parli all’elettorato afroamericano e latino. Di Big Tech per ora si parla poco.

Chi è il candidato più vicino alle Big Tech?

E’ abbastanza chiaro che il candidato della Silicon Valley è, almeno culturalmente, Pete Buttigieg. Ma anche Joe Biden va benissimo: nell’amministrazione Obama dirigenti e lobbisti di Google sono stati alla Casa Bianca almeno 450 volte, secondo il Google Transparency Project. Con il vecchio Biden al vertice, Pichai potrebbe dormire sonni tranquilli.

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