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Perché Facebook, Google, Ibm, Apple e Amazon sono golosi dei nostri dati sanitari

Facebook, Apple, Google, Amazon e Ibm: a tutti interessano i nostri dati sanitari. I colossi dell’IT si sono lanciati nel mercato della sanità e in futuro potrebbero gestire direttamente il settore con cliniche, farmacie e centri di ricerca. L’approfondimento di Lorenzo Bernardi Un sistema sanitario in mano ai colossi dell’informatica, capaci di gestirlo direttamente grazie…

Un sistema sanitario in mano ai colossi dell’informatica, capaci di gestirlo direttamente grazie alle intelligenze artificiali e anche tramite infrastrutture “reali”, come cliniche, ospedali e laboratori. Il quadro della sanità globale, in futuro, potrebbe essere questo e i segnali di un interesse di Big Tech nel settore si moltiplicano in tutto il mondo. Google, Apple, Amazon, Ibm, Facebook si stanno già schierando, il mercato fa gola a tutti.

IL CASO FACEBOOK

L’ultimo caso è salito alla ribalta nei giorni scorsi dopo una rivelazione dell’emittente americana CNBC. Facebook ha cercato un accordo – mai concluso – con alcuni ospedali americani con l’obiettivo di ottenere i dati sanitari dei pazienti. Lo scandalo Cambridge Analytica ha stoppato tutto, ma resta il fatto che quello di Facebook è soltanto l’ultimo di una lunga serie di casi che ha come leitmotiv l’interesse dei big dell’IT nel settore sanitario.

ITALIA: IL CASO WATSON CENTER

In Italia si è scritto molto del Watson Health Center, che Ibm vuole realizzare a Milano. Si tratta di un centro di ricerca europeo in cui i dati sanitari di migliaia di pazienti verrebbero processati dall’intelligenza artificiale Watson e utilizzati per prevenire, diagnosticare e curare malattie. L’operazione (come Startmag ha spiegato qui) è attualmente in standby, arenata su enormi problemi di privacy, sottolineati dal Garante.

I rischi di consegnare i dati sanitari di migliaia di pazienti a un soggetto privato sono evidenti: quelle informazioni sono una miniera d’oro (pensiamo a cosa cosa succederebbe se finissero, ad esempio, alle compagnie assicurative…) e quindi sorge il problema di renderle anonime e, per quanto possibile, non hackerabili. Comunque la vicenda Watson, per quanto ancora al palo, lascia supporre che sia solo questione di tempo prima che i colossi dell’IT ottengano l’accesso ai dati sanitari. Resta solo da capire in quale quadro normativo ciò avverrà.

Per farsi un’idea di cosa riserva il futuro su questo tema basta guardare cosa è già avvenuto all’estero.

GOOGLE DEEP MIND NEL REGNO UNITO

Nel Regno Unito, già nel 2015 i dati sanitari dei pazienti sono finiti in mano a una compagnia privata, in questo caso Google. Gli attori coinvolti nella vicenda erano Deep Mind, una società del gruppo che si occupa di intelligenza artificiale, e il Royal Free National Health System (NHS) Foundation Trust, un ente pubblico-privato che gestisce alcuni ospedali londinesi. Nel 2015 Deep Mind aveva stretto un accordo per sviluppare un’app, Streams, che monitorasse i pazienti affetti da patologie renali (AKI). L’app poteva avvertire i medici del peggioramento delle condizioni dei pazienti utilizzando i loro dati sanitari. Parliamo di informazioni relative a 1,6 milioni di persone, passate dal NHS a Deep Mind. In teoria non avrebbe dovuto utilizzare sistemi di intelligenza artificiale, ma limitarsi a supportare il personale medico.

Tuttavia, nel 2017 è emerso che l’accordo Deep Mind-Royal Free non rispettava le leggi inglesi sulla privacy. Un esempio? Secondo il sito di divulgazione scientifica New Scientist, le informazioni fornite a Deep Mind avrebbero compreso la sieropositività dei pazienti. L’ICO, il corrispettivo britannico del Garante della Privacy, ha stabilito che i pazienti, quando avevano dato il consenso a trasmettere i dati, non erano stati sufficientemente informati sull’utilizzo che Deep Mind ne avrebbe fatto.

Il timore insomma è che quelle informazioni possano essere state utilizzate per altri fini rispetto alla cura delle patologie renali. Circostanza questa di cui non ci sono evidenze, anche se qualcuno ha sollevato dubbi del genere. Per esempio John Naughton, esperto di tecnologia della Open University. Citando un articolo accademico pubblicato a marzo 2017, Naughton ha evidenziato sul Guardian che “l’aspetto che più colpisce dell’accordo Deep Mind-Royal Free è la convinzione con cui le parti hanno continuato a raccontare che nonostante (il progetto Streams, ndr) non si occupasse di intelligenza artificiale ma soltanto di supporto ai medici nella cura specifica delle malattie del rene, c’era comunque bisogno di processare i dati dei pazienti in un periodo pluriennale”. Circostanza che, ha aggiunto Naughton, “non ispira certo una grande fiducia”.

CARE.DATA E I RISCHI DELLA PSEUDOANONIMIZZAZIONE

La domanda è: esistono davvero rischi di una commercializzazione dei dati sanitari? Secondo le varie aziende coinvolte no, ma malgrado le loro rassicurazioni i timori restano.

Lo conferma il caso di Care.data. Nel Regno Unito, fra il 2013 e il 2016 l’NHS ha tentato di creare un database contenente i dati sanitari di tutti i pazienti del servizio sanitario nazionale (tranne quelli di chi si fosse opposto). La proposta è naufragata per varie ragioni. Primo: i rischi legati alla sicurezza. I dati digitali, come tutti i sistemi informatici, sono vulnerabili. Secondo: malgrado le informazioni siano anonime, c’è il problema del cosiddetto “data enrichment”. In sostanza la possibilità di incrociare più banche dati tramite sistemi informatici. Una pratica che può permettere a chi ha accesso alle varie banche (quindi, in teoria, anche a un privato) di collegare il dato sanitario – in teoria anonimo – al singolo paziente.

Si tratta della cosiddetta “pseudo-anonimizzazione” che ha conseguenze potenzialmente gravissime. Fra esse è compreso il rischio di commercializzazione dei dati sanitari. Non sono valse a molto le rassicurazioni dell’NHS circa il fatto che l’ente non avrebbe mai “tratto profitto dalla cessione dei dati a soggetti esterni”: il programma è stato chiuso nel 2016 e non si sa se verrà riavviato.

LE “FARMACIE” DI AMAZON E LE CLINICHE DI APPLE

Lo schema degli interessi di Big Tech in campo sanitario si completa con quanto sta avvenendo in USA. E cioè l’ingresso delle principali compagnie nel mercato della sanità. Amazon, per esempio, punta già sulla vendita di farmaci da banco (quelli per cui non serve la ricetta) con la sua linea Basic Care.

Apple invece aprirà questa primavera in California la prima clinica AC Wellness, destinata ai propri dipendenti. Dovrebbe essere la prima di una serie di strutture avviate da Cupertino, un modo per risparmiare sulle spese sanitarie dei dipendenti (negli USA spesso a carico dei datori di lavoro) che al contempo consentirà all’azienda di Tim Cook di entrare in possesso dei loro dati sanitari.

 

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