skip to Main Content

Ecco come si combatte la Guerra per i Talenti

L'approfondimento di Gian Marco Litrico, ex dirigente d’azienda, blogger onnivoro su emigrantepercaso.com, vive in Canada da anni

Per Corporate America, soprattutto attraverso l’AI, proprio quella che eliminando o rimodellando centinaia di professioni.

Pensate ai chatbot, gli assistenti digitali parlanti che ormai sono di casa nei call center.

Una tecnologia che sta diventando matura, al punto da far dire che abbia iniziato la quinta rivoluzione industriale l’anno scorso, quando l’a.d. di Google ha fatto prenotare dalla sua assistente digitale la parrucchiera per la moglie. Questo senza che la parrucchiera fosse consapevole di parlare al telefono con un robot.

Gli entusiasti sostengono che l’automazione portata dall’AI eliminerà i compiti più tediosi, liberando tempo ed energie mentali per ciò che richiede abilità sociali e capacità di giudizio tipicamente umani.

Quello che è certo, è che l’Algoritmo ha già colonizzato tutte le funzioni della gestione delle risorse umane.

Scrive gli annunci di lavoro. Setaccia con un occhio imparziale centinaia di c.v. “Mica puoi dirgli di assumere tuo cugino”, dice, ignaro delle creatività e del senso della famiglia in Italia, Andrew McLeod, amministratore delegato di Certn, azienda costruita intorno ad un algoritmo che scandaglia 200mila data-base per farti sapere chi hai di fronte quando assumi o affitti la casa.

L’AI predice il comportamento dei candidati. Ne analizza le competenze tecniche e relazionali. Governa la riqualificazione dei lavoratori, li motiva. Li licenzia.

Per combattere la Guerra dei Talenti si può puntare sulle reclute, lottando con i concorrenti e facendo i conti con i Millennials e la Generazione Z.

Sono già il 45% della forza-lavoro e arriveranno al 75% nei prossimi 6 anni. Il 50% di loro vivrà presumibilmente oltre i 100 anni, tanto che c’è chi ironizza dicendo che i Baby Boomers hanno gli orologi, ma i Millennials, nati quando Reagan era alla Casa Bianca, hanno il tempo. Come si diceva dei Vietcong nelle risaie in Vietnam, e poi si sa come è andata a finire.

Sono diversi, i Millennials. Cresciuti a pane e social media, sono abituati a cambiare: 150% all’anno il turnover nella ristorazione, e non parliamo della gente seduta a cena, ma ci sono settori che arrivano al 500%. Non hanno nel loro DNA la routine “scrivania dalle 9 alle 5”. Sono interessati al benessere psicofisico, neofrugali per necessità, ma più spesso per scelta.

La Generazione Z, i nati del 2000, ha cominciato a lavorare quest’anno, e per il 40%, secondo un’indagine, si è già pentita dell’offerta di lavoro accettata.

Per l’80% di loro il livello di diversificazione umana dell’azienda influenza le loro scelte di carriera. Google, tra le prime, ha dato il buon esempio cambiando il criteri di assunzione, dopo aver scoperto che solo l’1% dei suoi tecnici erano di colore, il 2% ispanici e il 17% donne.

La caccia al talento si pratica nelle Università e al college, sui social media, nel passato, nel futuro, nell’esercito, nelle aziende altrui. Soprattutto si pratica con strumenti nuovi.

Prendete il curriculum vitae. Il c.v., che gli americani pronunciano “si vi”. La coperta di Linus per la generazione dei Baby Boomers, nati tra la fine della guerra e la metà degli anni ’60. Uno strumento discusso oggi: un selezionatore ne legge fino a 150 al mese. Troppi. Con l’AI si può risparmiare ore di lavoro ed eliminare (forse) l’errore umano.

Già, perché i c.v. non dicono mai la completa verità, e i selezionatori sono pieni di pregiudizi, come tutti. Nei tempi andati, la selezione assomigliava a una mano di poker, dove serviva capire chi avesse le carte in regola e chi invece bluffasse. Oggi, anche i social media entrano in gioco come fonte di informazione. “Con il triplo delle possibilità in più che un candidato menta nel suo c.v. che nella sua pagina Facebook”, insinua ancora McLeod, un millennial che lancia start-up da quando aveva 18 anni. Insomma, il giro di poker continua, ma è molto più difficile barare. Sia per chi cerca lavoro, sia per le aziende, messe a nudo su Glassdoor e in tutti i siti di recensione degli ambienti lavorativi. Cambiano le parole che definiscono una posizione. Addetto o venditore non sono più “cool”: oggi si cercano guru della contabilità, ninja delle vendite e rockstar della reception. Insomma, il cv non gode di buona salute. E c’è chi lo contesta apertamente.

La londinese Hackajob non usa mezzi termini: il sistema di assunzioni nell’hi-hech si è rotto e va aggiustato. Basta c.v., contano solo le capacità. Ha creato una comunità di 100mila sviluppatori, dando loro la possibilità di far vedere i progetti realizzati.

EquitySim, invece, è un gioco di ruolo in cui studenti, provenienti da 220 università, mostrano le loro competenze di borsa e finanza, anche senza background specifico.

Sales Force, ramo software aziendali, ha creato TrailHead, una università online che attribuisce un “badge”, cioè un distintivo digitale che certifica competenze, obiettivi raggiunti, corsi seguiti. Un modo intelligente per passare da un mercato del lavoro a un mercato delle competenze, dove le competenze sono provate e diventano moneta sonante per accedere al lavoro.

(2. continua; qui per leggere la prima puntata)

Back To Top