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Che cosa fa l’Italia nella guerra mondiale dei chip? Il commento di Umberto Rapetto

Il commento di Umberto Rapetto, generale a riposto della Guardia di Finanza, già comandante del GAT Nucleo Speciale Frodi Telematiche, ora docente universitario, giornalista e scrittore 

Mi stupisco ci sia chi si stupisce. Non è un banale gioco di parole. Soltanto una sconfortata considerazione.

La storia del “microchip spia” rumoreggiata in questi giorni va a richiamare (e vedremo se ci sarà riuscita) l’attenzione sulla nostra fragilità nel frenetico scenario contemporaneo.

Nei panni di un redivivo Ernesto Calindri, seduto ad un tavolino in mezzo al traffico urbano e pacificamente intento a sorseggiare uno storico liquore, si fa presto ad accorgersi che l’attuale “logorio della vita moderna” non può trovare rimedio in un elisir. I carciofi – che erano l’ingrediente base dell’amaro reclamizzato nell’indimenticabile Carosello – in questo caso vanno metaforicamente messi da parte, cominciando con quelli assisi in ruoli e posizioni di responsabilità senza disporre delle più elementari competenze e dell’indispensabile determinazione ad agire.

La notizia del microprocessore pericoloso è l’ultimo trillo del campanello d’allarme: non c’è più tempo da perdere e, accantonato l’italico malvezzo del piazzare amici fedeli e conoscenti riconoscenti, occorre “stringersi a coorte” reclutando senza esitazione chi può ancora tentare una disperata manovra per evitare qualche disastro.

Il problema è serio al di là del folklore che ne connota i contorni che hanno meritato roboanti titoli di giornali e le suggestive considerazioni di chi ha ben compreso la caratura della questione.

La vulnerabilità delle nostre infrastrutture tecnologiche (dai dispositivi più elementari alle architetture maggiormente complesse) a dispetto della mitologia ha due talloni d’Achille: la componentistica elettronica (schede madri, processori…) e il software di base (ossia i sistemi operativi come -banalmente – Windows, Android, IoS e così a seguire). Questi due elementi possiedono saldamente l’interruttore della nostra vita. Un loro malfunzionamento pregiudica la regolarità del ciclo biologico individuale, collettivo, nazionale, comunitario, internazionale.

Il microprocessore è il circuito elettronico che – cuore e cervello degli apparati hi-tech – condensa al proprio interno vari circuiti integrati che a loro volta hanno assorbito numerosi transistor… Non stiamo a dissertare di vivisezione dei chip, ma ci interessa comprendere la complessità di una sofisticata matrioska da cui dipende il nostro futuro ma già il nostro inevitabile oggi.

Un così avanzato prodigio della scienza applicata è frutto della straordinaria intelligenza di un italiano, Federico Faggin. La circostanza più bizzarra è che la nostra Patria – sovente più matrigna che madre – non ha approfittato di una simile genialità e oggi, invece di setacciare l’Italia alla ricerca di giovani talentuosi, si preferisce biascicare “uno vale uno” e ci si impegna per togliere valore legale alle lauree e per attuare l’appiattimento culturale agevolati da web e televisione.

Chi produce microprocessori può ingegnerizzare al loro interno qualunque funzione. Può far compiere azioni indesiderate già programmate o attivabili al verificarsi di un evento oppure innescate da un preciso comando o sollecitazione anche da remoto. Può deciderne la premorienza e stabilire ora e giorno in cui il chip deve smettere di funzionare, magari simultaneamente a tutti i suoi “fratellini” ovunque siano stati installati.

Chi produce chip ha un vantaggio incommensurabile. Il mercato è dominato da alcuni colossi come TSMC (Taiwan), Samsung (Corea del Sud), SMIC (Cina). le statunitensi Intel, AMD, Qualcomm e Nvidia, e altri produttori emergenti.

L’Italia non produce chip.

I sistemi operativi sono l’anima di qualsivoglia dispositivo e la loro missione di interpretare i comandi e far dialogare i programmi applicativi con le “macchine” è di evidente criticità. Chi realizza quel che viene chiamato anche software di base ha un conclamato vantaggio perché ha in mano le operazioni elementari di smartphone, tablet, computer, server…

L’Italia non sviluppa sistemi operativi.

Solo un masochismo compulsivo farebbe proseguire il discorso.

Bisogna guardare avanti, senza patullarsi oltre.

Una Nazione che ha avuto già un quarto di secolo fa una Autorità per l’Informatica nella P.A. e oggi vanta una Agenzia per l’Italia Digitale non può stare ferma ad aspettare un inesorabile destino avverso.

Il Commissario Straordinario per l’Attuazione dell’Agenda Digitale del Governo Italiano, forse per sobria discrezione, non ci ha mai detto cosa abbia fatto nei due anni di incarico. Se le riflessioni ammonticchiate nelle righe precedenti, come mi auguro, sono state oggetto di discussione (vista l’innegabile rilevanza strategica) sarei curioso di sapere dal dottor Piacentini quali riflessioni e reazioni operative siano state innescate.

Se invece l’Agenda Digitale era soltanto quella tascabile Casio, come non detto.

Umberto Rapetto

Generale GdF (r) – già comandante del GAT Nucleo Speciale Frodi Telematiche
Docente universitario, giornalista e scrittore 

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