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Ex Ilva

Ilva, ecco chi ha vinto e chi ha perso

Il commento dell'editorialista Giuliano Cazzola sull'accordo che ha chiuso il caso Ilva

Anche un orologio rotto segna l’ora corretta almeno due volte ogni giorno. E’ quanto va riconosciuto al superministro (super per l’accumulo di dicasteri non per la qualità della persona) Luigi Di Maio dopo la conclusione della vertenza Ilva.

Come ha detto recentemente in un’intervista Marco Bentivogli, il sindacalista che più di ogni altro (si veda anche la sua storia dell’Ilva e della vertenza pubblicata sul Foglio) ha contribuito a resuscitare il Lazzaro della siderurgia, anche noi siamo disposti ad attribuire (anche se è vero solo in minima parte) a Di Maio il merito di aver ottenuto da Arcelor-Mittal di più del suo predecessore.

Tutti i salmi finiscono in gloria. Continuiamo, però, a non comprendere e a stigmatizzare la tiritera che il ‘’capo politico’’ del M5S ribadisce ogni volta che gli mettono davanti un microfono: l’assegnazione al vincitore della gara presentava profili di illegittimità, ma l’interesse pubblico ha indotto a non prestarvi attenzione.

Una concezione un po’ singolare della legalità. Come se il giovane ministro – grande frequentatore dello stadio San Paolo di Napoli – ritenesse applicabile la regola calcistica ‘’del vantaggio’’ anche alle grandi operazioni di carattere industriale. Certo, Giggino Di Maio ha avvertito l’esigenza di dare una spiegazione ai trinariciuti che avevano preso sul serio il suo ukase contro le ‘’manine’’ autrici del delitto perfetto, destinato a restare impunito. E non può dire, adesso: ‘’ragazzi, io mi ero cercato un’uscita di sicurezza nel caso che tutto saltasse per aria. Che cosa avrei potuto inventare di meglio – se non una vicenda che puzzasse di malaffare – per chiudere lo stabilimento, come il M5S aveva promesso in campagna elettorale?’’.

Ma se questa era un’ipotesi presa in considerazione dal governo (il Che de’ noantri, Alessandro Di Battista, dall’estero, invitava minaccioso il vice premier grillino a rispettare gli impegni assunti con l’elettorato) perché alla fine la situazione ha preso un’altra piega e la vertenza si è sbloccata? A chi scrive sembrano decisive due circostanze.

In primo luogo, la determinazione di Arcelor-Mittal a proseguire nell’impresa e a non farsi defraudare dei suoi diritti di legittimo acquirente. Ci sono stati momenti in cui il management si sarà sicuramente chiesto se ne valesse la pena. Ma l’aver insistito, nonostante la cialtroneria di accuse immotivate, è un’ulteriore testimonianza dell’interesse di una delle più importanti multinazionali dell’acciaio per lo stabilimento di Taranto.

Una grande società, accusata pubblicamente di aver truccato la gara e minacciata di vedersi annullare l’assegnazione, avrebbe potuto andarsene sbattendo la porta ed affidarsi ad azioni legali di risarcimento. In seconda battuta, va annoverata la svolta intervenuta all’interno dei sindacati: la decisione di prendere in mano, anche con la mobilitazione delle maestranze, la vertenza e di trattare direttamente con la nuova proprietà, accantonando pretese insostenibili (la richiesta che non vi fossero esuberi) e dimostrando quel realismo che è proprio del mestiere del sindacato.

Troppe volte, nel caso Ilva, i lavoratori sono stati abbandonati a se stessi. Soprattutto quando il timore reverenziale nei confronti della magistratura inquirente aveva lasciato mano libera alle sue incursioni nell’attività produttiva e nell’organizzazione del lavoro. Poi quando si è subito il ricatto di un ambientalismo talebano, pronto a tutto pur di imporre la cultura del declino. Infine, quando non si è voluto concludere la vertenza con il precedente governo, rischiando di affidare il futuro di un’impresa condannata ad uno dei tanti possibili boia.

Restiamo convinti che lo stabilimento non meritasse le persecuzioni a cui è stato sottoposto negli anni del suo martirio. E che i problemi reali dell’Ilva, nel contesto urbano, potessero essere affrontati e risolti altrimenti. Non è sufficiente, ora, accontentarsi che questa storia sia finita bene (sempre che non ci siano sorprese) e che un grande stabilimento riprenda a vivere e a produrre. Forse non sarebbe nemmeno dovuta iniziare.

Non si può dare torto a chi diceva che tutto l’acciaio del mondo non vale la vita di un bambino. Salvo ricordare a queste “anime belle’’ che milioni di bambini muoiono proprio laddove non si produce acciaio.

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