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Politica

Greta e il populismo ambientalista. Una critica ragionata

L'analisi di Alessandro Campi, direttore dell'Istituto di Politica

 

Le vie del populismo non sono infinite, ma certe molteplici e variegate, al punto che talvolta fatichiamo a riconoscerle. Prendiamo ad esempio il movimento politico e d’opinione che s’è creato su scala globale intorno alla giovane attività svedese Greta Thunberg.

La causa perorata da quest’ultima è certamente nobile e grandiosa: la salvaguardia del pianeta contro il rischio – dato come imminente – della sua distruzione causata dai cambiamenti climatici. Ma come definire, se non come tipicamente populiste, le modalità attraverso le quali Greta e i suoi seguaci stanno conducendo la loro battaglia? Basta una buona causa per giustificare un modo discutibile (se non in prospettiva pericoloso) di mobilitare le masse?
Se il populismo in sé – con la sua miscela di demagogia, culto del leader, manicheismo ideologico, settarismo, appello al popolo ed emotività di massa – rappresenta, come molti sostengono, un modello politico tendenzialmente ostile nei confronti della democrazia (delle sue procedure istituzionali e del suo costume) come è possibile non mostrarsi apertamente critici, o perlomeno criticamente scettici, nei confronti di questa sua variante che potremmo definire “populismo ambientalista”?

Gli stilemi tipici del populismo, se si guarda al modo con cui è cresciuto nel mondo il “fenomeno Greta” (sino a diventare qualcosa a metà tra una moda politico-mediatica che si fa forte della nostra cattiva coscienza e un movimento di massa che inclina verso il misticismo para-religioso), sono tutti facilmente riconoscibili. A partire dal più elementare e costitutivo d’ogni populismo: la divisione del mondo in buoni (i molti) e cattivi (i pochi). I primi sono gli abitanti del pianeta (il popolo inteso in questo caso come umanità), i secondo sono i capi di governo e gli esponenti dell’establishment finanziario e industriale mondiale.

I primi sono portatori di una visione politica che persegue la tolleranza, il benessere garantito a tutti, la pace e un sistema economico che non sia distruttivo della natura e dei suoi fragili equilibri. I secondi, insensibili ai destini del pianeta e privi di senso morale, rincorrono solo il profitto economico e lo sfruttamento delle risorse. A questi ultimi è concessa un’alternativa secca: pentirsi dinnanzi al mondo delle loro scelte sin qui scellerate (cambiando dunque radicalmente le loro decisioni) oppure sparire dalla scena lasciando il posto ad una nuova classe di politici-sapienti realmente in grado di porre fine al lento degrado dell’ambiente.

Si tratterebbe insomma di scegliere tra il bene assoluto (la salvezza dell’umanità) e il male assoluto (la distruzione del mondo): ma chi può ambire coscientemente a quest’ultimo obiettivo se non un nemico dell’umanità altrettanto assoluto per neutralizzare il quale ogni mezzo – dall’invettiva alla messa al bando legale – è dunque consentito? Peraltro a sollecitare la creazione di una nuova coscienza del mondo, in polemica generazionale contro i loro genitori sopraffatti dal mito della carriera e della ricchezza materiale, sono i giovani e giovanissimi: puri e giusti per definizione, non ancora corrotti dai falsi miti di un progresso che non vuole accettare limitazioni, avanguardia priva di colpe della futura umanità.

Ma ad accrescere l’impressione che ci troviamo in piena “estasi populista”, come l’ha definita qualche anno fa uno studioso, sono anche altri fattori. Ad esempio la natura stessa della leadership esercitata da Greta. Da lottatrice solitaria e anonima (le foto che la ritraggono seduta dinnanzi al Parlamento svedese mentre sciopera per il clima rinunciando ad andare a scuola) si è trasformata nell’interlocutore politico-morale dei potenti della Terra. Nei suoi confronti, i seguaci – sempre più numerosi – oscillano ormai tra un’incondizionata ammirazione, per la caparbietà con cui ha portato avanti la sua lotta, e una venerazione del tipo che di solito si riserva ai capi religiosi. Ogni sua parola è quasi un editto, che nessuno osa contestare. Tiene discorsi in tutti i consessi politici nazionali e mondiali, senza che nessuno osi pubblicamente replicarle nel timore di attirarsi contumelie o reprimende. In meno di un anno si è trasformata in un capo amato in modo quasi incondizionato, additato come esempio virtuoso e rivoluzionario alle nuove generazioni. Se non fosse per la causa che sostiene, una simile concentrazione di popolarità su scala mondiale dovrebbe persino fare un po’ paura, trattandosi del meccanismo fideistico e carismatico che di solito biasimiamo quando si parla del populismo e delle sue derive ultra-personalistiche.

Ma non bisogna trascurare anche altri elementi, che anch’essi ci portano dalle parti del populismo. Le posizioni che Greta sostiene in materia d’ambientalismo sono intrise, a dir poco, di un allarmismo che sconfina nel millenarismo di marca apocalittica. Se la terra brucia sino all’esito ultimo della sua devastazione, o peggio ancora se l’umanità rischia di estinguersi nel giro di un decennio, c’è davvero poco da stare a ragionare o a controbattere. Ogni discussione o confronto è inibito alla radice. Peraltro questa visione catastrofista e drammatizzante è stata ormai abbracciata in modo quasi acritico dalla gran parte del sistema mediatico mondiale, soprattutto quello che opera nella sfera occidentale, al punto tale da essersi convertito in un mantra propagandistico. Ma il martellamento di poche “verità” ripetute all’infinito, alle quali si può soltanto aderire in modo istintivo, non è esattamente tipico dello stile populista? Si tratta poi di un unanimismo che dovrebbe cominciare a destare qualche sospetto: se le grandi multinazionali giocano ormai a chi più rispetta l’ambiente è per salvarsi l’anima, è perché hanno compreso d’aver sbagliato o è perché in questo cambio del sentimento collettivo hanno già visto un’occasione per accrescere i loro profitti con in più il salvacondotto morale di ergersi a difensori del pianeta? È tipico della retorica populista inveire contro il Sistema, minacciare di sovvertirlo alla radice, per poi diventarne un puntello o una parte integrante.

Andiamo oltre. Continuiamo a dire, quando si tratta di criticare i populismi, che la paura alimentata in una chiave irrazionale può ingenerare forme d’azione individuale e collettiva che rischiano di diventare ingovernabili politicamente e socialmente distruttive. La paura non è mai una buona consigliera. Si possono realizzare politiche ambientali razionali ed efficaci, che per essere tali necessitano ovviamente di una accorta pianificazione (oltre a richiedere molto tempo per sortire i loro effetti), sotto l’incalzare della più grande e assoluta delle paure: la scomparsa dell’uomo dalla faccia della Terra?

Non parliamo poi della polarizzazione (largamente strumentale e anch’essa pericolosa) che il radicalismo cavalcato da Greta rischia di determinare: anche questo un aspetto che spesso viene rimproverato ai populismi. L’idea che chi non abbraccia la sua visione di un mondo sull’orlo dell’abisso sia ipso facto un nemico dell’umanità, che toglie ai giovani le loro speranze per il futuro, è davvero pericolosa per il fatto di mettere i governanti di tutto il mondo, in quanto tali, sul banco degli imputati (oltre a delegittimarli gli occhi delle rispettive opinioni pubbliche, come se non fossero dei leader democraticamente eletti capaci di perseguire il bene comune, ma degli usurpatori nemici del popolo-umanità). Ieri persino il presidente francese Macron, pure dichiaratamente in prima linea insieme alla Merkel nelle battaglie europee per l’ambiente, ha apertamente polemizzato contro Greta e il suo eccesso di manicheismo, che rischia di aumentare l’antagonismo sociale nel segno di un ambientalismo di stampo fondamentalista. Le invettive, magari con le lacrime agli occhi, possono servire per creare attenzione intorno ad un problema e per creare una mobilitazione collettiva sotto la spinta dell’emozione e della paura. Ma non sono una soluzione politica o una risposta razionale ai problemi che si vorrebbero risolvere

(Estratto di un articolo pubblicato su Istituto di Politica, qui l’articolo completo)

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