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Algeria: la mossa di Bouteflika, il ruolo delle opposizioni e gli scenari per Eni e Total con Sonatrach

Bouteflika rinuncia a concorrere per il quinto mandato presidenziali. Quali scenari si aprono in Algeria? L'analisi di Michela Mercuri, analista e docente di geopolitica

“Non ci sarà un quinto mandato. Il mio stato di salute e la mia età mi impongono come ultimo dovere nei confronti dei cittadini della mia Nazione quello di contribuire alla fondazione di una nuova Repubblica”. Con queste parole, scritte in una lettera dal presidente algerino Bouteflika, o visto il suo stato di salute sarebbe più logico dire “da chi per lui”, si apre la prima pagina di un libro ancora tutto da scrivere: il futuro dell’Algeria. Non illudiamoci che il ritiro dalle scene dell’uomo che aveva retto le sorti del paese dal 1999 decreti tout court la vittoria delle piazze. Il malandato leader ha rinunciato a concorrere per il quinto mandato, ha rinviato le elezioni e ha nominato un nuovo premier, il ministro degli interni Bedoui che guiderà il Paese verso un nuovo referendum costituzionale. De facto, Bouteflika resterà in carica fino alle nuove elezioni. Il tempo necessario per permettere al suo clan di gestire la transizione. Le piazze festeggiano ma è presto per dire se la voce del popolo sarà davvero ascoltata o se si tratta dell’ennesima vittoria di Pirro. Siamo solo all’inizio di un percorso incerto.

Per cercare di capire quale sarà la traiettoria di un Paese erroneamente visto dai distratti osservatori occidentali come “immutabile nel suo rassicurante immobilismo” dobbiamo partire dai fatti. Da quanto affermato dall’entourage presidenziale le elezioni si terranno dopo una conferenza nazionale che ha l’ambizione di rappresentare tutta la società algerina. Nel frattempo verrà formata una commissione elettorale indipendente per garantire la regolarità del voto e verrà formato un “governo tecnico” per elaborare il testo di una nuova costituzione da sottoporre a referendum. Fin qui tutto bene, verrebbe da dire. Eppure a ben guardare tra i gangli di questo complesso meccanismo non può che sorgere qualche dubbio. In primo luogo è evidente come il processo di transizione sia sotto il controllo -o quantomeno la supervisione- dell’entourage del presidente, un chiaro segnale di continuità con il passato. Inoltre, come spesso accade in questi casi, non si è ancora parlato di date e scadenze, elemento di non poco conto in una situazione così fluida. D’altra parte il clan di Bouteflika, l’élite economica e gli apparati di sicurezza, che fin qui hanno attinto dalle casse dello Stato, hanno tutto l’interesse a proporre riforme di facciata per placare le proteste e mantenersi al potere. Prendere tempo è una ricetta infallibile.

Ci sono poi le piazze, migliaia di persone strette in una protesta pacifica e dignitosa ma che non hanno ancora deciso chi sarà il loro rappresentante. Il rischio di disperdere la volontà popolare per assenza di leader in grado di convogliarne il consenso è concreto, così come è concreto il rischio che la piazza possa essere utilizzata strumentalmente da tutti coloro che vogliono salire sul carro del vincitore. I paragoni sono spesso azzardati ma non può non tornare alla mente il caso egiziano. Durante le proteste del 2011 si affermò una galassia di movimenti di opposizione, come ad esempio Kifaya (basta!), nato come organizzazione di protesta e di promozione delle riforme, un movimento espressione della società civile ma poco influente dal punto di vista degli equilibri politici. Questo aprì la strada a forze maggiormente organizzate, come la Fratellanza musulmana, con tutte le conseguenze a noi ben note.

In sintesi, il sistema è ancora forte ed è stato capace di governare per lo meno dal 2013, da quando cioè Bouteflika non è stato più in grado di farlo. Anche la piazza è forte ma manca, almeno per ora, di partiti in grado di rappresentarne le istanze. Un risultato win win appare impossibile.

Infine, visti i precedenti, non possiamo ignorare il ruolo degli attori stranieri, spesso ospiti indesiderati nei teatri di crisi del Nord Africa e del Medio Oriente, che con la loro longa manus cercano di salvaguardare i propri interessi, finendo per influenzare gli equilibri interni. Per l’Europa, e in particolare per alcuni Paesi come l’Italia, il gas algerino rappresenta una fetta importante del fabbisogno interno (circa il 36 per cento). Molte compagnie straniere come Eni e Total hanno di recente siglato accordi di esplorazione con la società di Stato algerina Sonatrach. La Russia è uno dei principali esportatori di armi nel Paese nordafricano. Gli Stati Uniti temono che una destabilizzazione del quadro interno possa acuire il fenomeno del terrorismo.

L’Algeria per la sua posizione geografica e la ricchezza del sottosuolo, sembra essere divenuta un hub ideale per molte organizzazioni jihadiste. Inoltre, con le coste libiche più controllate, i vari trafficanti, in parte invischiati con alcune sigle terroristiche, stanno cercando nuovi lidi da dove far partire i propri barconi. Troppi rischi e troppi interessi per credere che i player internazionali possano restare con le mani in mano.

Tante incognite minano il sogno dei giovani algerini. Tuttavia la società civile è riuscita a ribaltare lo stagnante e consolidato rapporto di forze che andava avanti da decenni, lasciandosi alle spalle quella sorta di “ricatto psicologico” della guerra civile degli anni Novanta che aveva perpetuato il potere delle élites. Difficile credere che ora accetteranno di essere governati dal maquillage del vecchio regime.

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