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Ecco come la web tax italiana può stritolare l’export del made in Italy

Fatti, nomi e approfondimenti su un decreto del Mef che rischia di imporre la tassa sulle aziende italiane e non sui giganti del web Tra i vari dossier che il nuovo ministro dell’Economia del costituendo governo M5S-Lega si troverà sul tavolo ci sarà certamente la cosiddetta “web tax”. Introdotta dalla legge di bilancio dello scorso…

Tra i vari dossier che il nuovo ministro dell’Economia del costituendo governo M5S-Lega si troverà sul tavolo ci sarà certamente la cosiddetta “web tax”. Introdotta dalla legge di bilancio dello scorso anno, questa dovrebbe prevedere l’introduzione di un’imposta parti al 3% sulle transazioni online, la cui definizione è demandata ad un decreto del che il ministero dell’Economia avrebbe dovuto emanare entro il 30 aprile. Con il governo dimissionario, e visto il lavoro in corso a livello europeo per arrivare ad un modello di tassazione comune, il ministro Pier Carlo Padoan ha preferito soprassedere, e il Dipartimento Finanze presenterà la bozza di Decreto attuativo al nuovo ministro.

L’IMPOSTA SECONDO LA LEGGE DI BILANCIO

La legge di bilancio 2018 al comma 1011 dell’articolo unico del testo, istituisce una “l’imposta sulle transazioni digitali, relative a prestazioni di servizi effettuate tramite mezzi elettronici rese nei confronti di soggetti residenti nel territorio dello Stato”. Questa, secondo il comma 1012, si applica sui “servizi prestati tramite mezzi elettronici quelli forniti attraverso internet o una rete elettronica e la cui natura rende la prestazione essenzialmente automatizzata, corredata di un intervento umano minimo e impossibile da garantire in assenza della tecnologia dell’informazione”.

COME SI APPLICA L’IMPOSTA PREVISTA

Nel successivo articolo 1013 si specifica che “l’imposta si applica nei confronti del soggetto prestatore, residente o non residente, che effettua nel corso di un anno solare un numero complessivo di transazioni di cui al comma 1011 superiore a 3.000 unità”. Lo stesso articolo chiarisce che l’aliquota è pari al “3 per cento sul valore della singola transazione”, intendendosi con questo il corrispettivo dovuto per le prestazioni “al netto dell’imposta sul valore aggiunto, indipendentemente dal luogo di conclusione della transazione”.

CHE COSA FA IL MEF

A seguito dell’approvazione della Legge di Bilancio il Dipartimento Finanze ha avviato i lavori relativi al decreto attuativo e, secondo quanto risulta a Start Magazine, ci sarebbero due bozze pronte, in attesa solo del via libera del nuovo Ministro. In termini di contenuto, considerando che il comma 1016 stabilisce che “ai fini dell’accertamento, delle sanzioni, della riscossione e del contenzioso relativi all’imposta […] si applicano le disposizioni previste in materia di imposta sul valore aggiunto, in quanto compatibili”, il lavoro del Ministero ha preso il via dal Regolamento UE 282 del 2011 di applicazione della direttiva 2006/112/CE relativa all’IVA, incluse le modifiche arrivate col Regolamento 1042/2013 relativo al luogo delle prestazioni di servizi.

CHE COSA DICE IL REGOLAMENTO

Il Regolamento in questione stabilisce una lista di servizi che di conseguenza verrebbero impattati dalla cosiddetta web tax. Tra questi: l’hosting di siti web e la conservazione dei dati on line (i servizi cloud); software online (inclusi antivirus e firewall); l’b) accesso o scaricamento di fotografie e immagini (ad aumentare quindi i costi operativi dei siti web); contenuto digitalizzato di libri e altre pubblicazioni elettroniche (quindi una tassa su libri e giornali online); notizie, informazioni sul traffico e previsioni meteorologiche on line (che farà contento il Veneto arrabbiato con gli allarmi sbagliati lanciati da certi siti meteo); accesso o scaricamento di musica su computer e su telefoni cellulari (ad es. Spotify); accesso o scaricamento di film (ad es. Netflix); fornitura di spazio pubblicitario (ad es. Google e Facebook).

GLI OBIETTIVI PREVISTI PER L’ERARIO

La norma in questione mira a far incamerare all’erario 190 milioni di euro a partire dal 2019, ma già sono emerse notevoli perplessità sull’applicabilità della norma, che rischia di dare il via a contenziosi di ogni tipo, viste anche alcune scelte operate dal legislatore definite in alcuni casi errate (ad es. l’eliminazione del credito d’imposta per le aziende italiane originariamente previsto dalla norma) e in altre arbitrarie (ad es. a quale titolo sono state escluse le imprese agrarie?).

GLI EXTRA COSTI PER LE IMPRESE ITALIANE

Da precisare che la tassa comunque non colpirà il singolo consumatore (se non indirettamente), ma sarà una tassazione di tipo B2B, che toccherà le imprese che acquisiscono questi servizi e che si vedranno – loro, non le multinazionali del web – maggiori costi del 3%, visto anche che ricadrà sul soggetto residente l’obbligo di versare il 3% in questione. L’aver messo nel mirino servizi quali il cloud, fondamentali ai fini dell’innovazione e su cui l’Italia è indietro rispetto a gran parte dell’Ue, ha già suscitato la dura reazione di Confindustria, che ha definito così questa web tax: “Un boomerang. Così è solo una tassa indiretta in più, una specie di Iva nascosta che va a incidere su qualunque azienda digitale, ma in particolare quelle italiane più innovative”.

I BORBOTTII DELLE ASSOCIAZIONI

Particolare attenzione poi sta suscitando presso le principali organizzazioni di rappresentanza – persino quelle indicativamente favorevoli ad una maggior tassazione dei giganti del web – la possibile inclusione nel Decreto Ministeriale sulla web tax delle transazioni online relative alla presenza delle aziende italiane sui marketplace di piattaforme quali Alibaba, Amazon ed eBay, in quella che finirebbe per diventare una vera e propria imposta sull’export con discriminazione a favore delle imprese estere che vendono verso l’Italia. Una situazione surreale che vedrebbe il Governo italiano andare a penalizzare quell’export che sembra essere una delle poche voci capaci di aiutare la crescita della nostra asfittica economia. Ma del resto non sarebbe la prima volta.

IL CONCETTO DI STABILE ORGANIZZAZIONE

Nel dibattito che circonda la web tax italiana manca, per ignoranza o – in alcuni casi – malafede, il sottolineare che l’ultima Legge di Bilancio approvata nella scorsa Legislatura ha riformato il sistema della corporate taxation, con un occhio proprio alle multinazionali digitali. Con il comma 1010 della stessa legge infatti, il governo ha ridefinito il concetto di “stabile organizzazione” per le multinazionali, lanciando la palla avanti rispetto alle norme attualmente in vigore nell’Unione Europea, anticipando quelle che saranno le riforme attese a livello o europeo o da parte dell’OCSE, che da anni sta lavorando sul tema e sembra ormai prossima a presentare le sue proposte.

IL RUOLO DEI FILO-PADOAN

Non un caso, visto che sia il ministro Padoan che il suo capo della segreteria tecnica Fabrizio Pagani e il suo consigliere Raffaele Russo sono di casa all’Ocse, dove quest’ultimo è a capo del Beps (Base Erosion and Profit Shifting) Project, che mira a ridisegnare le regole della tassazione dei profitti (non dei fatturati) delle aziende multinazionali.

LO SAPETE CHE LA WEB TAX E’ GIA’ IN VIGORE?

Di fatto quindi, una sorta di web tax è già in vigore dallo scorso 1 gennaio. E visto che la norma prevede anche che “Il Ministro dell’economia e delle finanze presenta alle Camere una relazione annuale sullo stato di attuazione e sui risultati conoscitivi ed economici derivanti dalle disposizioni di cui ai commi da 1010 a 1018”, non sarebbe forse il caso di attendere i risultati di questa riforma di andare ad appesantire le aziende italiane con nuove imposte?

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